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Comunicazione e Sociologia (a cura di Pierpaolo Buzza) . Anno II, n° 6 - Febbraio 2008

Zoom immagine I metodi poco democratici
della shock economy
e la critica di Naomi Klein
verso il sistema neoliberista

di Giuseppe Licandro
L’ultimo volume dell'esperta canadese
rilancia la politica economica di Keynes


Il mondo attuale sta attraversando una nuova fase storica, durante la quale sono emersi alcuni segnali di cambiamento in campo economico, che stanno forse ad indicare un’incipiente crisi dell’orientamento neoliberista prevalso da un trentennio a questa parte nei principali stati occidentali e impostosi, oltre che in molti paesi del Terzo mondo, anche nell’Est europeo dopo il 1989.  Si sta assistendo alla rapida affermazione di nuove potenze economiche, come la Cina e l’India, e al declino dell’Europa comunitaria, che appare in difficoltà di fronte a concorrenti meglio attrezzati. E anche la Russia di Putin – dopo un quindicennio di emarginazione – sembra riscoprire la vocazione di “superpotenza”, minacciando di riaprire l’epoca della Guerra fredda che si riteneva ormai definitivamente tramontata. A fornirci ragguagli dettagliati sulle tendenze in atto nell’economia e nella politica mondiali ci ha pensato la studiosa canadese Naomi Klein, esponente dei movimenti pacifisti e no-global, che ha recentemente pubblicato il volume The Shock Doctrine, tradotto in italiano col titolo  Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri (Rizzoli, pp. 624, € 20,50). Si tratta di un poderoso tomo, che esamina con dovizia di particolari i principali avvenimenti storici dell’ultimo cinquantennio, soffermandosi anche sulle vicende che hanno segnato la prima fase del nuovo millennio.

Nell’Introduzione la Klein chiarisce molto bene l’intento del libro, dichiarando esplicitamente che vuole, innanzi tutto, manifestare il proprio dissenso nei confronti delle strategie sostenute dagli economisti neoliberisti della Scuola di Chicago, capeggiati per lungo tempo da Milton Friedman (premio Nobel per l’economia, morto nel 2006, che è stato per tanti anni il maggior teorico della deregulation). L’autrice, infatti, scrive: «Per più di trent’anni, Friedman e i suoi potenti seguaci avevano perfezionato proprio questa strategia: attendere il verificarsi di una grande crisi o di un grande shock, quindi sfruttare le risorse dello Stato per ottenere un guadagno personale mentre gli abitanti sono ancora disorientati, e poi agire rapidamente per rendere “permanenti” le riforme».

Il libro dedica ampio spazio anche ai sistemi di manipolazione mentale con cui, a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, lo psichiatra britannico Ewen Cameron, attraverso l’elettroshock ed altre forme di “terapia” assimilabili alla tortura, è riuscito a condizionare il comportamento di pazienti affetti da disturbi psicologici al fine di «ricostruire nuove personalità». Sembra che le stesse tecniche siano state usate per scopi politici da agenti senza scrupoli dei servizi segreti e da brutali poliziotti, sia nei regimi comunisti, sia in vari stati del mondo occidentale.

 

L’emblematico caso cileno

Secondo la Klein, in molti paesi sudamericani ed asiatici le teorie neoliberiste sarebbero state applicate coartatamente, quando già la resistenza dei sindacati e dei partiti di opposizione era stata sradicata con la violenza.

L’esempio più eclatante riportato nel libro è quello del Cile, dove nel 1970 fu eletto democraticamente il presidente Salvador Allende, che avviò una politica socialdemocratica nazionalizzando le miniere di rame e impegnandosi in favore della riforma agraria. Così facendo, però, egli intaccò gli interessi di alcune aziende multinazionali straniere – tra cui le statunitensi Anaconda, Kennecott e Itt – che si attivarono per rovesciarne il governo. L’11 settembre 1973 un golpe militare, guidato dal generale Augusto Pinochet, pose fine alla democrazia cilena, imponendo una feroce dittatura, durata circa quindici anni.

Fu in questo frangente che i cosiddetti Chicago boys – gli economisti seguaci delle teorie di Friedman – si impegnarono attivamente per condizionare Pinochet e riorganizzare in senso liberista l’economia del Cile, col pieno sostegno di Richard Nixon ed Henry Kissinger (all’epoca, rispettivamente, presidente e segretario di Stato degli Usa). Fu così imposta una “terapia shock”, che in poco tempo portò il governo di Santiago a privatizzare interi settori produttivi, a diminuire i salari, a liberalizzare i prezzi e ad eliminare spietatamente ogni contestazione del “nuovo corso”, acuendo sensibilmente il divario fra i ricchi e i poveri. Il modello cileno fu poi esportato nelle nazioni che, negli anni seguenti, subirono cruenti colpi di stato militari, come l’Argentina, l’Uruguay ecc.

 

Reagan e la “Lady di ferro”

In quel periodo, anche in tanti stati democratici cominciarono a diffondersi tendenze politiche conservatrici, che si accompagnarono a scelte economiche neoliberiste, i cui maggiori mentori furono Ronald Reagan (presidente degli Usa dal 1980 al 1988) e Margaret Thatcher, la “Lady di ferro” che governò la Gran Bretagna dal 1979 fino al 1990. Anche nei due paesi anglosassoni le misure neoliberiste furono imposte attraverso provvedimenti piuttosto “scioccanti” (almeno per i lavoratori): nel 1981, infatti, Reagan licenziò in un sol colpo ben 11.400 controllori di volo, iniziando a privatizzare i servizi aeroportuali; nel 1985 la Thatcher chiuse la maggior parte delle miniere di carbone britanniche e licenziò 996 minatori, intensificando nei cinque anni successivi la privatizzazione delle aziende pubbliche, avviata in precedenza in forma più attenuata.

Da allora in poi il modello neoliberista si diffuse a macchia d’olio, determinando l’avvento della “globalizzazione” con tutte le sue implicazioni economiche e politiche: delocalizzazione delle industrie nei paesi più poveri, privatizzazione dei servizi pubblici, indebolimento dei sindacati e contrazione dei salari, forti sgravi fiscali alle imprese, deregulation ecc.

Gran parte del mondo ha finito per adeguarsi a questo modello economico, che si è esteso anche nei paesi dell’ex blocco socialista. E tutte queste trasformazioni sono avvenute – secondo la Klein – sempre all’insegna della “dottrina dello shock”, che, secondo le parole di Friedman, prevede la seguente strategia applicativa: «Questa, io credo, è la nostra funzione basilare: sviluppare alternative a politiche esistenti, tenerle in vita e a disposizione finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile».

 

 

La metamorfosi dei paesi comunisti

Il «politicamente impossibile» si è avverato, per esempio, nel dicembre 1991, quando è fallito il piano riformatore di Michail Gorbačëv e si è dissolta l’Unione Sovietica.

La Klein è convinta che nell’Est europeo, anziché attuare una transizione graduale all’economia di mercato, si sia malauguratamente scelta la soluzione più radicale, imponendo una veloce liberalizzazione economica, dagli esiti sociali disastrosi. Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno condizionato notevolmente i nuovi governi dei paesi di quest’area geografica, affinché adottassero da subito le misure neoliberiste più drastiche.

Il più importante economista che ha sostenuto la rapida apertura dei mercati dell’Europa orientale è stato Jeffrey Sachs, uno studioso dell’Università di Harvard che, pur essendosi formato alla scuola keynesiana, ha finito per accettare molte delle tesi friedmaniane (salvo poi ricredersi, ultimamente). Sachs ha concorso in modo determinante ad avviare le privatizzazioni “selvagge” in Polonia dopo il 1990 ed è stato anche tra i consiglieri economici di Boris Eltsin, lo “zar” che ha trasformato profondamente la società sovietica. Anche in Russia il passaggio all’economia di mercato (senza regole) è stato contrassegnato da una serie di eventi traumatici, tra cui ricordiamo, nel 1993, l’assalto dell’esercito alla Casa Bianca di Mosca (la sede del parlamento russo, all’epoca in maggioranza contrario ad Eltsin) e la successiva Guerra di Cecenia, che è servita per rinfocolare il nazionalismo e scaricare verso l’esterno le tensioni sociali provocate dalle privatizzazioni. Ma, secondo la Klein, a beneficiare del cambiamento di regime non sono state tanto le imprese straniere, quanto una parte consistente della nomenklatura dell’ex Pcus, che si è accaparrata – per pochi milioni di rubli – i gangli nevralgici dell’economia statale. Nell’ultimo quindicennio, infatti, sono apparsi sulla scena della Russia i cosiddetti «oligarchi» dopo aver comprato le grandi aziende pubbliche (come la Gazprom, la Sidanko, la Yukos ecc.), si sono affermati anche sul piano politico.

Persino la Cina – dove formalmente vige ancora un regime comunista – ha fatto tesoro degli insegnamenti economici neoliberisti, soprattutto dopo le tragiche vicende del 1989, diventando nell’arco di un decennio una grande potenza capitalistica, nella quale, però, pochissimi diritti civili sono riconosciuti alla popolazione, meno che mai ai lavoratori, molto spesso trattati come schiavi dai nuovi padroni dell’industria.

 

I disastri più recenti

Secondo la Klein, il neoliberismo ha trovato altra linfa vitale, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, a seguito di vari episodi traumatici che hanno sconvolto intere aree del globo: la crisi finanziaria che ha colpito l’Estremo Oriente nel 1997; gli attentati terroristici a New York dell’11 settembre 2001; l’invasione dell’Iraq nel 2003; il maremoto che ha colpito molti paesi dell’Oceano Indiano nel dicembre del 2004; l’uragano “Katrina” che si è abbattuto sul Sud-Est degli Stati Uniti nel 2005.

Questi tragici fatti hanno ulteriormente favorito l’espansione commerciale di numerose aziende multinazionali (Carlyle, Carrefour, Coca-Cola, Hewlett-Packard, Hulliburton, Lockheed, Nestlè, Nissan, Novartis ecc.), alcune delle quali sono state amministrate anche da personaggi che fanno parte – o hanno fatto parte – del governo di George Bush junior (ad esempio, Dick Cheney e Donald Rumsfeld). Le grandi imprese in questione, infatti, hanno gestito la ricostruzione seguita ai disastri, sbaragliando le imprese concorrenti, impossessandosi dei territori abbandonati dalla popolazione civile e, addirittura, rilevando la gestione di interi compartimenti pubblici (per esempio, il settore della sicurezza negli Usa è di fatto passato nelle mani di aziende e agenzie private). La logica sottesa a tutto questo è riassunta dalla Klein in due locuzioni che ritornano spesso nel suo libro: «capitalismo corporativo» e «capitalismo dei disastri». La prima espressione sta a indicare che una ristretta cerchia di persone controlla i flussi finanziari mondiali e detta le regole ai governi “amici”, come se ci fosse solo un’unica, grande corporation. La seconda sta a significare che nell’economia neoliberista non c’è rispetto per l’autodeterminazione dei popoli e che ogni momento di crisi è utile per ricattare chi non è ancora pienamente “liberalizzato”, cioè disposto ad aprire totalmente i propri mercati alle aziende straniere, senza alcun tipo di protezione doganale.

 

Ritorno a Keynes

La Klein protende apertamente per il ritorno ad una politica economica di tipo keynesiano e auspica il rilancio di un nuovo modello di welfare state (in ciò d’accordo con due illustri economisti del nostro tempo, Joseph Stiglitz e Serge Latouche, molto critici con l’attuale modello di globalizzazione). Pur rigettando il sistema autoritario realizzato dal comunismo sovietico, la studiosa canadese è una fervente sostenitrice dell’“economia mista”, al punto da affermare quanto segue: «Keynes aveva proposto esattamente questo genere di economia mista, regolata, dopo la Grande depressione: una rivoluzione nell’approccio politico che creò il New Deal e trasformazioni analoghe in tutto il mondo. È stato proprio quel sistema di compromessi, controlli, ed equilibri che la controrivoluzione di Friedman mirava a smantellare metodicamente».

Qualcosa, tuttavia, sta cambiando, a livello internazionale. Le novità, a parere dell’autrice, riguardano soprattutto l’America Latina: diversi stati sudamericani (in particolare Argentina, Bolivia, Brasile, Cile e Venezuela) stanno cercando di sottrarsi ai condizionamenti che il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale hanno esercitato su di loro in questi anni. L’orientamento di alcuni degli attuali governi del continente americano sembra indirizzato verso la nazionalizzazione dei settori cruciali dell’economia, cercando nel contempo di risanare i debiti con l’estero senza ricorrere a ulteriori prestiti da parte dell’Fmi, ma attingendo a più eque fonti creditizie. Non si tratta, come erroneamente si potrebbe credere, di una svolta decisamente statalista (sul modello cubano), quanto piuttosto del recupero di una politica di stampo socialdemocratico.

 

Perché non si parla quasi mai dell’Italia?

Un’ultima annotazione ci sembra necessaria: nelle oltre seicento pagine del volume della Klein quasi mai si parla dell’Italia e nell’indice dei nomi non risulta inserito alcun personaggio politico italiano! Ci chiediamo se si tratta di un’imperdonabile dimenticanza o, piuttosto, della logica conseguenza del ruolo alquanto marginale che il Belpaese ha rivestito nella politica internazionale dal 1945 in poi.

In Italia, a dire il vero, nel quarantennio appena trascorso non sono certo mancati gli “shock” (vedi terrorismo nero e rosso, strategia della tensione, attentati mafiosi, Tangentopoli ecc.); e anche la politica economica dei governi italiani si è abbastanza adattata, nel corso del tempo, alle direttive della Scuola di Chicago.

Tuttavia, il “sistema italiano”, saturo com’è di episodi controversi, rappresenta un’anomalia, per molti versi incomprensibile, all’interno dell’Occidente capitalistico. Nell’ultimo decennio, infatti, abbiamo assistito alla vendita di buona parte delle aziende pubbliche e alla larga diffusione dei contratti di lavoro precario, ma anche – in controtendenza – al prevalere di lobby corporative che si oppongono alle liberalizzazioni, all’anomalo sviluppo in talune regioni della “mafia imprenditrice” che monopolizza ampi settori produttivi, al proliferare del tradizionale clientelismo, soprattutto presso gli enti locali. Queste contraddizioni, oltre a rendere confuso il presente, non lasciano certo intravedere un futuro più stabile per la situazione complessiva del nostro paese.

 

Giuseppe Licandro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 6, febbraio 2008)

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