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Anno VII, n. 72, agosto 2013
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Problemi e riflessioni (a cura di Angela Galloro) . Anno VII, n. 72, agosto 2013

Zoom immagine Gli aborigeni.
Un popolo antico
che resiste ai coloni
passati e presenti

di Federica Lento
Da Biancaevolta, un bel reportage
rievoca il legame tra terra e umanità


Viaggiare, osservare, conoscere l’ignoto e rimanerne folgorati. Quando lo sconosciuto è così lontano e talmente affascinante, come il popolo degli aborigeni in Australia, il cammino diventa scoperta del nuovo, dell’altro che sta per svanire ma che lotta ancora per sopravvivere e lasciare il suo segno.

È quello che ha fatto Mateusz Marczewski, reporter, scrittore e poeta, attraversando l’Australia dalla moderna Sidney alle terre selvagge di Arnhem e Alice Springs e scrivendo di un popolo che sta scomparendo, nel saggio Gli Invisibili. L’ombra degli aborigeni in Australia (Biancaevolta edizioni, pp. 156, € 15,00). Si tratta di una raccolta di venti capitoli che racchiudono poeticamente le sensazioni ispirate dai luoghi visitati, rappresentati sulla cartina che apre il testo.

Il saggio è suddiviso in tre parti: la prima ha una scrittura strettamente legata alle percezioni dell’autore, la seconda, più visionaria, racconta maggiormente quello che “si vede” camminando, mentre la terza è legata alla storia del popolo incontrato durante il viaggio. La cornice che unifica il testo è quella del linguaggio descrittivo tipico del reportage. Il libro fa parte della collana Sotto la lente, che raccoglie testimonianze di popolazioni che vivono in terre sconosciute o dimenticate con lo scopo di metterle sotto la lente d’ingrandimento, appunto, per non spegnere la memoria.

 

Gli aborigeni in Australia ieri e oggi

La parola aborigeno, dal latino ab origine, “fin dall’origine”, venne usata in Australia a partire dal 1789 per indicare tutti gli indigeni australiani, che in realtà si suddividono in circa cinquecento popoli diversi, ciascuno con la propria identità linguistica e territoriale. Popolazione sconosciuta e selvaggia, immersa esclusivamente nella natura spesso ostile, ha dovuto confrontarsi con la prevaricazione dell’uomo bianco, con una civiltà violenta, espressione che è in sé un ossimoro.

Prima della colonizzazione, la maggior parte degli aborigeni viveva sia lungo le coste, sia nell’entroterra; i primi si sostentavano con l’agricoltura e la pesca, i secondi con la caccia. Ai giorni nostri la comunità aborigena australiana risiede nelle città e spesso vive in condizioni di violenza, povertà e degrado, punita e depredata a causa della sua libertà, derubata delle sue terre sin dai primi anni della colonizzazione britannica. «Era la terra che dava vita all’uomo; gli dava il nutrimento, il linguaggio e l’intelligenza, e quando lui moriva se lo riprendeva. La “patria” di un uomo, fosse anche una desolata distesa di spinifex, era un’icona sacra che non doveva essere sfregiata. […] Ferire la terra è ferire se stesso, e se altri feriscono la terra, feriscono te. Il paese deve rimanere intatto, com’era al tempo del sogno, quando gli antenati col loro canto crearono il mondo» diceva Bruce Charles Chatwin quando ricordava nei suoi scritti di viaggio il rapporto sofferto tra gli aborigeni e il loro territorio.

Privati del diritto di risiedere nelle loro terre, secondo il principio giuridico della terra nullius che disciplinava la questione indigena nella legislazione inglese e definiva la terra australiana, prima dell’arrivo dei britannici, come una terra di nessuno che poteva essere legittimamente utilizzata dai coloni, gli aborigeni hanno subito una violenza devastante sia sul piano fisico che sociale. Essi avevano un concetto di fratellanza in termini di universalità, si sentivano, cioè, figli di uno stesso padre ed esistenti su una stessa terra, a differenza dei bianchi che vivevano autonomamente gli uni dagli altri, non conoscevano alcun genere di fratellanza e non avevano alcun rispetto per la terra, dal momento che la loro unica aspirazione era rendere succube quello che resisteva, per poi distruggerlo.

Nell’arco di un secolo dall’arrivo dei colonizzatori, la popolazione aborigena si ridusse di circa la metà: le invasioni ebbero come conseguenza epidemie che sterminarono migliaia di persone, mentre molti aborigeni furono massacrati per mano dei coloni.

Nel corso del secolo passato si è assistito, invece, alla politica brutale della “generazione rubata”, che strappava i bambini aborigeni dai loro genitori per consegnarli alle famiglie dei bianchi affinché si cancellasse ogni traccia della cultura e della lingua originarie.

Ancora oggi, come ci testimonia il testo di Mateusz Marczewski, gli aborigeni sono oggetto di razzismo e violenze, vivendo in condizioni al limite dell’umanità.

Marczewski ha avvicinato queste popolazioni così ermeticamente ripiegate su se stesse, come a volersi proteggere da qualsiasi altro da sé che rappresenta il nemico e il pericolo, ne ha superato la diffidenza e ha ottenuto la loro fiducia. Grazie alle sue parole si riescono a vedere perfettamente popolazioni mitologiche e leggendarie sullo sfondo, riflesso di un’attualità devastata ma perfettamente aderente a quel passato, destinata all’oblio se non raccontata. Attraverso il suo sguardo si riconoscono vite private di un futuro, di una prospettiva, di una spinta vitale, di un’energia che diventa solo rassegnazione, l’ombra di un passato selvaggio e forte. Sono uomini e donne invisibili, fantasmi per la società che stanno a stento in piedi, donne, madri, bambini, cani ed edifici che si sgretolano nel loro cercare di rimanere dritti o nei loro rapporti.

 

Federica Lento

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 72, agosto 2013)

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