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Direttore editoriale: Monica Murano
Anno II, n° 6 - Febbraio 2008
La nuova Pedagogia
nella società attuale:
prospettive possibili
e traguardi difficili
di Clementina Gatto
Contributi per una riflessione critica
sulla formazione, editi da Rubbettino
Per capire lo stato attuale della Pedagogia nell’intricatissimo panorama disciplinare contemporaneo, non sono certo sufficienti tre saggi, tanto meno lo sono per inquadrare il ruolo della stessa all’interno di una società che si modifica così velocemente come quella occidentale. Eppure, il libro curato da Matteo Venza (Le nuove frontiere della Pedagogia interculturale, Rubbettino, pp. 76, € 10,00), che è anche autore del primo dei tre contributi presenti nel volume, fornisce tutti gli elementi che costituiscono e alimentano vivacemente il dibattito degli ultimi anni, volto a isolare e risolvere le cause per cui
Il denominatore comune dei tre saggi è il pluralismo culturale, punto di partenza per l’analisi e il rinnovamento degli strumenti teorici e metodologici della disciplina, in accordo con le nuove sfide della società. In altre parole, come può la Pedagogia essere ancora utile a degli uomini che non costituiscono più dei gruppi omogenei e ai quali non bastano più direttive consolidate perché dettate dalla consuetudine e di cui, per ciò stesso, è facile fidarsi? La compenetrazione culturale di cui siamo, in ogni caso, coprotagonisti, rimescola ogni categoria, scardina i nostri mores; in una parola disorienta, costringendoci a scendere, ci si consenta la blasfemia, dalle spalle dei giganti, ed essere anche inventori intuitivi di strategie nuove.
Una delle soluzioni suggerite è che
E poi, la scelta su cosa privilegiare e cosa trascurare nei programmi dovrebbe essere operata sulla base dello scenario che oggi ci si apre: non può lasciare fuori quanto di storia, di letteratura, di geografia e di filosofia interessa gruppi umani che sono parte del nostro stesso ambiente comunicativo. In altri termini, l’auspicio comune dei tre diversi saggi è un approccio pluridisciplinare della Pedagogia, che non storca il naso di fronte agli strumenti che le sono offerti dai diversi campi del sapere.
La pars construens
Nel primo dei tre contributi (Valenza interculturale della funzione pubblica della Pedagogia), Venza inquadra la questione da un punto di vista “politico”. Il pluralismo culturale, che moltiplica la circolazione delle idee, complessifica la gestione del potere e crea nuove scale di valori; nella società veloce, anche l’avvicendarsi dei riferimenti è rapido: non tutto è facile da definire e da far sedimentare. I rischi sono due: non solo non cogliere il potenziale di arricchimento del pluralismo culturale, ma addirittura farlo scadere nel relativismo. Per scongiurare questi rischi, la Pedagogia non deve limitarsi a guardare solo all’interno del suo ambito («additare valori e [...] trasferire conoscenze»), delegando il resto, come poteva accadere in passato; deve piuttosto essere attenta a quanto accade intorno a lei, acquisire uno sguardo consapevole del contesto politico-culturale, sì da formulare scelte indipendenti: non essere politicizzata, ma pur sempre “pubblica”, perché forma le persone nella loro vita individuale, mentale e culturale, ma anche in quella pratica, quotidiana, concreta. «Si delinea [...] un percorso pedagogico sempre più articolato, esteso e complesso rispetto al passato, che affonda le sue radici nella scuola, nell’opera degli insegnanti, degli studenti e delle famiglie per diramarsi, poi, in ogni ambito della vita quotidiana, sociale e lavorativa».
Il saggio successivo, di Dario De Salvo (La conoscenza come presupposto della Pedagogia interculturale), si interroga sulle potenzialità offerte dalla Pedagogia per garantire l’uguaglianza nell’accesso alla conoscenza, e indica un modo possibile per realizzare quanto auspicato: la disciplina, egli sostiene, deve puntare su «una teoria della conoscenza volta non tanto al “conoscere” in generale, quanto a capire l’Altro», per realizzare un processo cognitivo attento alle peculiarità culturali, sociali e personali dell’individuo. Il pluralismo culturale, infatti, non si configura mai come neutra coesistenza tra culture, indifferenza reciproca, ma come comunicazione interculturale (un certo Paul Watzlawick ha detto «Non si può non comunicare»): può essere potenziamento del patrimonio umano di conoscenza, oppure un punto di crisi, accettazione acritica del pensiero altrui, per il quale ogni credenza ha pari dignità; ma conoscere vuol dire andare al di là dei particolarismi, delle credenze, degli idola. Il contributo di De Salvo propone una possibilità: intendere l’educazione interculturale come «una prospettiva interdisciplinare che sia in grado, da un lato, di consentire un’integrazione delle diverse discipline e, dall’altro, di ridurre i rischi di una settorialità che impedirebbe di interpretare il processo formativo da [...] una prospettiva più ampia». A tal fine, l’autore analizza i rapporti che la Pedagogia potrebbe intrattenere fruttuosamente con altre discipline e auspica la formazione di educatori professionisti interculturali.
Infine, Deborah Puliafito (Informazione e conoscenza nelle società multiculturali), analizza la questione del ruolo della Pedagogia a partire dall’incidenza dei nuovi media (si riferisce a tutto ciò che è nato dopo la stampa, la radio e la televisione) sui cambiamenti della società che, la stessa studiosa, concorda nel definire postmoderna. L’autrice giudica l’ingresso dei nuovi media positivamente, poiché essi hanno consentito, potenzialmente, il passaggio da una società dell’informazione ad una cognitiva. In altri termini, essi permettono di realizzare scambi comunicativi da cui emerge una modalità di pensiero non lineare, che non avrebbe spazio nel contesto mediale “classico”, in cui quanto differisce dalla cosiddetta norma appare come un’eresia; viceversa, il pensiero circolare simboleggia la possibilità di un apporto plurale, multiforme, interdipendente. La ricaduta pratica è tutt’altro che apparente: citando Pierre Levy, Puliafito assicura che i nuovi media realizzano «un’etica dell’intelligenza collettiva»: la scoperta della differenza è il filo conduttore degli interlocutori-fruitori che, al di là dei loro background, in virtù (o a causa) della mediazione, sono portati a supportarsi a vicenda, unendo le loro fragilità. Perché è solo e fragile l’uomo che non ha riferimenti validi in cui ricercare, prima di sbagliare, se non questo misterioso Altro (oltre che, naturalmente, l’odiato “senno di poi”).
Tra scetticismo ed entusiasmo: esiste davvero una possibilità?
Dare voce alle differenze, limare le distanze, integrare: questa, in sostanza, l’idea che sottende il libro e, soprattutto, il dibattito contemporaneo.
Vogliamo sollevare un dubbio: concetti come pluralismo culturale, integrazione dell’Altro, minoranza, a noi pare che presumano un’idea di distacco.
La stessa Antropologia, la Sociologia e tutte le discipline che indagano l’uomo, sono nate in seno alla cultura occidentale e, a partire da essa, da sempre, hanno analizzato gli Altri; ma non è riduttivo un approccio che impone la sua esistenza per differenza col resto? Un compromesso, azzardiamo, potrebbe essere la rinuncia a qualsiasi validità universale, ma temiamo che possa corrispondere, in fondo, al relativismo. E comunque sarebbe di difficile realizzazione: siamo ancora una volta noi occidentali che osserviamo, studiamo, proponiamo soluzioni; i nostri parametri sono sempre etici e mai emici.
Una possibilità, forse un paradosso, sarebbe l’abbandono dell’idea di integrazione: non si deve integrare nessuno, se ci si considera uguali.
Una possibilità meno provocatoria risiede a nostro avviso nella formazione linguistica e letteraria, perché se, secondo alcuni (Benjamin Lee Whorf, 1970), la lingua struttura il pensiero allora consente anche la conoscenza e la lettura di se stessi, amplia lo sguardo interiore, sensibilizzando la percezione di quanto – e di chi – ci si presenta, arricchendo l’esperienza di vita e consentendo di diventare consapevolmente parte del gruppo umano in cui ci si trova ad essere.
D’altra parte, se ci si presenta uno scenario così nuovo da scardinare ogni vecchio equilibrio, da farci porre così urgentemente la questione dell’Altro, il primo passo importante da fare è proprio cercare un terreno comune; ma non risiede, esso, proprio nel fatto di condividere tutti la stessa frammentarietà, le stesse insicurezze?
Clementina Gatto