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Viaggiatori italiani
e stranieri narrano
l’Italia meridionale
di Riccardo Berardi
Un breve saggio ripercorre descrizioni
e opinioni sul Sud tra i secc. XVI-XIX
Il primo scrittore e viaggiatore a citare Corigliano[1] nella prima Età moderna fu il sacerdote dell’ordine dei minimi Gabriele Barrio (1506-1577), il quale nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae. Libri quinque, elaborata nel 1571 e ampliata da Tommaso Aceti nel 1737, scriveva: «Cittadella nota e antica, che è bagnata dal fiume dello stesso nome, fondata dagli Ausoni o dagli Enotri, come è lecito congetturare. Dista ottomila passi da Rossano, tremila dal mare. Vi si tiene un mercato annuale. Esiste anche una sorgente rinomata, il territorio di Corigliano sovrabbonda di ogni cosa. Si producono vini e oli ottimi. Crescono il cotone e il sesamo. Nascono i capperi, crescono il terebinto, il vetrice, i baccelli selvatici ed il finocchio marino. Esistono anche bei boschi di limoni, cedri e mele bionde dei quali frutti si produce ingente quantità. Si catturano anche tordi e altri piccoli uccelli. In più questo mare è oltremondo [sic] pescoso. In esso con tutti gli altri pesci, si cattura grande quantità di piccoli tonni»[2].
Successivamente, il feudo coriglianese fu visitato dall’inquisitore bolognese Leandro Alberti (1479-1552), che nella sua Descrittione di tutta Italia, pubblicata nel 1550, dedicò alcune pagine alla zona compresa fra Corigliano e Rossano, definendola ricca di giardini alberati e caratterizzata da una moderna organizzazione agronomica[3].
Anche il padre francescano Girolamo Marafioti (1567?-1626?) nel medesimo periodo elogiava l’opulenza dell’hinterland coriglianese: «Più oltre la via del mare per distanza da quello forse da tre miglia circa si incontrava un altro nobile castello antichissimo fabbricato sugli Ausoni, e doppio abitato dagli Euotrii detta Coriolano, ma nell’uso comune è chiamato Corigliano incontro nel quale discorre un fiume del nome dell’abitazione, e appresso scorre il fiume Lucino, che chiude il territorio da quello di Rossano. Le campagne di Corigliano sono abbondantissime quali d’ogni cosa necessaria al vivere umano, nasce la vite, il terebunto, si fa il bambaggio, la sesama, e ne giardini si fa abbondanzi [sic] diversi frutti, e il territorio è molto commodo a diurse caccie [sic] d’uccelli»[4].
Nel Seicento, invece, il territorio della Sibaritide venne esplorato da Giovanni Fiore (1622-1683), frate dei minori cappuccini, il quale, nella sua principale opera, Della Calabria Illustrata, sottolineava: «Riconosce egli la sua prima origine dagli Aussoni: così Barrio, e Marafioti; con quel solo divario, che il primo dubita, se dagli Aussoni, o pur Oenotry [sic]: l’altro l’afferisce senza dubiezza; non concedendone a gli Oenotrj, che la sola abitazione cò [sic] qualche accrescimento. Egli però è da crederli, che con altro nome ancora oscuro fra tenebre le tenebre dell’antichità, perche [sic] quello di Corogliano gli avvenne né [sic] Secoli più in qua, qual’ora occupato da Coroliano Capitano dè [sic] Romani, ò [sic] per benevolenza, ò [sic] per altro, gli lasciò il proprio nome, per detto di Isidoro Toscano.
Paese assai bello, come lo descrive frà [sic] Leandro, [...] conciosianche [sic] di ogni lato si vedono vaghi giardini pieni di cetri, limoni, aranci, ed altri fruttiferi alberi, con tanto artificio posti, ed ordinati, ch’ella è cosa molto dilettevole, e curiosa da vedere. […] Ne [sic] perciò vi mancano altri più preziosi frutti, che sono gli Uomini illustri, del numero de’ quali sono Gio: [sic] Domenico Grandopoli, Marco Mazziotta, Gerardo Sanfelice, Francesco Longo, Orazio Lumbisano, Gregorio, Alessio, e Matteo, tutti, e tre Cappuccini illustri per virtù. Accresciuto di gran popolo in 1443 [...] e ritornado [sic] dentro Terra, ecco su di un Monte, a canto il fiume Moccone»[5].
Nel Settecento l’interesse per Corigliano non tramontò: infatti ospitò i viaggiatori stranieri del Grand Tour, i quali, sfidando i briganti e le febbri malariche, arrivarono in Calabria per conoscere il retaggio del mondo greco.
Il primo resoconto fu del barone tedesco Johann Hermann von Riedesel, il quale nel 1767 raggiungeva la Piana di Sibari con l’intento di scoprire qualche avanzo della civiltà magnogreca. Riedesel, amico del celebre archeologo Winckelmann, restò deluso dalla scarsa presenza di vestigia antiche, ma notò l’affascinante realtà paesaggistica di Corigliano, la fiorente agricoltura e la produzione della liquirizia da lui descritta così: «Questa radice viene estratta dalla terra dal mese di novembre fino al mese di giugno […]. La si taglia a pezzi, la si inumidisce, la si macina in mulino fino a ridurla in pasta, la si fa bollire in una grande caldaia per 8 ore avendo cura di tenere sempre un po’ d’acqua in questa caldaia. Si ricava un succo denso e vischioso, e si cuoce finchè [sic] si abbia raggiunto tale durezza da essere tagliata, viene venduta ad Inglesi e Olandesi»[6].
Il 19 aprile 1768, invece, giunse l’erudito viaggiatore lucchese Attilio Arnolfini (1733-1791). Quest’ultimo fece una particolareggiata descrizione del territorio evidenziando la perfetta organizzazione agricola e i profitti dell’azienda ducale, la cui rendita annuale ammontava a 40.000 ducati[7]. «Il feudo di casa Saluzzo – scriveva l’intellettuale toscano – veniva descritto come il posto più ricco e rigoglioso dell’intera Calabria, nonostante la presenza della malaria nella zona di Apollinara. […] Il territorio ha cinque fiumi, Lucino, Coriglianello, Malfrancato, Misofato, Crati e Sibari. Il fiume Crati, grosso, perenne e che porta arena, non ha né argini né ripe difese; forma molte lagune e ristagni, che cagionano aria insalubre»[8].
I drammi della gente comune e le prepotenze feudali vennero svelate da Henry Swinburne (1743-1803), il quale nel biennio 1777-78 studiò la società calabrese, affermando che la tirannia dei baroni a Corigliano era meno oppressiva rispetto ad altri luoghi, eppure la gente viveva nella miseria. Fu ospitato nella casa di un commerciante di olio ed evidenziò l’arretratezza dei costumi e dell’agricoltura, lontana da ogni tipo di modernizzazione. Tuttavia, redasse una buona descrizione geografica del feudo: «Attraversammo il Crati, un bel fiume ampio, limpido e rapido. Gli antichi credevano che le sue acque fossero medicinali e avessero la proprietà di tingere di un bel biondo o giallo i capelli di coloro che ne bevevano a lungo […]. Nel pomeriggio cavalcammo per tre miglia su una bellissima collina coperta di aranci, limoni, cedri, ulivi, mandorli e di altri alberi da frutto che, per le contrastanti macchie di verde e per la varietà della loro altezza e forma, offrivano uno dei più vari e intensi panorami che avessi mai visto anche in Italia che pure è paese di meravigliosi paesaggi»[9].
Jean-Claude Richard de Saint-Non (1727-1791), meglio noto con il nome di Abate di Saint-Non, scrisse un’opera enciclopedica illustrata, intitolata Viaggio pittoresco, dove riporta resoconti con impressioni raccolte sul campo tra il 1781 e il 1786.
Per quanto riguarda la Calabria, e in particolar modo Corigliano, l’Abate ci ha lasciato una dettagliata esposizione delle strutture territoriali: «Corigliano non è tuttavia che un grande villaggio sovrastato da un vecchio castello piazzato sulla vetta di una roccia; ma la sua posizione, il suo suolo, e l’aria profumata che vi si respira, come i suoi prodotti, lo mettono al di sopra di tutte le descrizioni che se ne possono fare. […] Ovunque frutteti agresti irrigati da ruscelli erranti a loro arbitrio, vi fanno crescere gli aranci all’altezza di querce. […] Vi si raccolgono tutti i grani che la terra può produrre, un vino squisito, e il migliore che vi è in Italia; i pascoli vi sono grassi e fertili, la pesca abbondante, e tutti i frutti più deliziosi, più perfetti che in alcun luogo del mondo. […] Eravamo soprattutto sorpresi di vedere che questa Calabria, di cui avevano fatto tanta paura, era il luogo ove durante tutto il nostro viaggio, avevamo visto esercitare l’ospitalità con la più larga franchezza e cordialità. […] Non ci si può fare un’idea dell’abbondanza e dell’eccellenza della frutta di tutte le specie che crescono naturalmente in questo paese, e senza la minima cura da parte degli abitanti»[10].
Nonostante queste bellezze, alcuni viaggiatori, come il Relliet, rimasero fortemente colpiti dai volti pallidi e giallastri dei contadini reduci dalla malaria, affermando che la situazione sociale di Corigliano era drammatica, al punto che gli abitanti morivano di fame nella più grande abbondanza[11].
Anche Giuseppe Maria Galanti, uno dei più grandi esponenti dell’illuminismo napoletano, visitando la Calabria nel 1792 come emissario del re borbonico, relazionò su Corigliano: «A misura che ci avviciniamo a Corigliano la coltivazione è migliore. Vi si veggono ulivi in grandissimo numero. Corigliano abbonda di agrumi, di ulivi, di frutti. Vi si semina molto grano. Vi sono erbaggi. Corigliano è paese grande ed è paese d’industria: la gente bassa è occupata da lavori campestri»[12]. E ancora: «Inoltre a Corigliano […] ci sono spedali i quali sono scarsissimi nella provincia, per cui si osservano molti infermi poveri perire senza soccorso»[13].
Agli inizi dell’Ottocento la regione fu al centro dell’attenzione degli stranieri: durante il Decennio francese, infatti, fiorì una cospicua letteratura storica proveniente, anzitutto, da scrittori militari forestieri che in quel periodo si trovavano sul suolo calabrese.
La prima di tali opere apparve a Parigi nel 1817 con il titolo Notice historique sur la Calabre pendant les dernieres révolutions de Naples par A.gte de Rivarol, capitaine, adj.t-major dans la Garde royale, del visconte Auguste de Rivarol, capitano aiutante maggiore della Guardia reale. Il libro del Rivarol può dividersi in due parti: la prima storico-politica, la seconda basata su informazioni economiche[14]. Proprio in questa seconda parte veniva menzionato Corigliano per i suoi aranceti[15].
Infine, a questa lunga carrellata di viaggiatori, certamente non esaustiva, ma incisiva per far capire le potenzialità economiche del feudo coriglianese, segue l’opera del generale francese Lubin Griois dal titolo: Mémories du général Griois 1792-1822, il quale confermava anche nel XIX secolo la predisposizione del feudo alla coltivazione della liquirizia[16].
[1] L’attestazione più antica, di cui disponiamo del nome “Corigliano” è in un privilegio papale del 2 gennaio 1113, concesso alla chiesa di Santa Maria di Valle Giosafat. Cfr. Pasquale Corsi, Dalla leggenda alla storia: l’età antica e medievale, in Fulvio Mazza (a cura di), Corigliano Calabro. Storia. cultura economia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 27-33. Oggi è un comune della provincia di Cosenza, composto da Corigliano Calabro, Marina, Stazione, Piana Caruso, Fabrizio, Torricella, Apollinara, Cantinella, Frasso, Thurio. Il territorio – 196 km2 – confina con quelli dei comuni di Acri, Cassano all’Ionio, Longobucco, Rossano, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, Spezzano Albanese, Terranova da Sibari, Vaccarizzo Albanese e il mar Ionio. L’abitato è su un poggio alla destra del torrente Coriglianeto e presenta struttura compatta. Si vuole che sia stato fondato al principio dell’XI secolo dagli abitanti di San Mauro, distrutta dai saraceni, di Viscano e di Torilliano. Si pensa che il nome derivasse da choríon e élaion, cioè giardino di olio. Si accrebbe con l’arrivo delle genti superstiti di Crepacore e di Labonia. Altri villaggi sotto il suo controllo erano Arnaro, Catraco e Paleposto. Cfr. Gustavo Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, vol. I, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1973, pp. 327-330; Gerhard Rohlfs, Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria, Longo, Ravenna, 1974, rist. 1990, p. 82.
[2] Gabriele Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, traduzione italiana di Erasmo A. Mancuso, Brenner editore, Cosenza, 1979, p. 561.
[3] Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Venezia, 1550, p. 230. Per un approfondimento sul viaggio di Leandro Alberti in Calabria si rimanda a: G. Valente, Leandro Alberti in Calabria, Brenner editore, Cosenza, 1968.
[4] Girolamo Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Arnaldo Forni editore, Bologna, 1975, p. 289.
[5] Giovanni Fiore, Della Calabria Illustrata, vol. I, Arnaldo Forni editore, Bologna, 1980, p. 239.
[6] Enzo Viteritti, I viaggiatori stranieri, in Mario Candido (a cura di), Beni ambientali architettonici e culturali di un centro minore del Sud: Corigliano Calabro, Abramo, Catanzaro, 2002, pp. 39-50.
[7] La moneta corrente nel Regno di Napoli era il ducato, che si divideva in tarì, carlini, grana (o grani), tornesi e cavalli (1 ducato = 5 tarì; 1 tarì = 2 carlini; 1 carlino = 10 grana; 1 grana = 22 tornesi; 1 tornese = 6 cavalli. Quindi 1 ducato = 5 tarì = 10 carlini = 100 grana = 200 tornesi = 1200 cavalli). La contabilità dei banchi era tenuta in ducati, tarì e grana. PESI. Per quanto riguarda i pesi in uso nel Regno di Napoli vi erano il cantario o cantaro (= 100 rotoli = 89,099 chilogrammi), la libbra (= 12 once = 321 grammi), l’oncia (= 26,75 grammi), il trappeso (= 20 acini = 0,891 grammi) e l’acino (= 0,04455 grammi), misura usata in oreficeria. Per una bibliografia sulle monete del Mezzogiorno d’Italia si rimanda a: Angelo Martini, Manuale di metrologia ossia Misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Editrice E.R.A., Roma, 1976; Antonio D’andrea - Christian Andreani, Le monete napoletane dai bizantini a Carlo V, Edizioni D’Andrea, Castellalto, 2009; Aa. Vv., Le monete napoletane da Filippo II a Carlo VI, Edizioni D’Andrea, Castellalto, 2011.
[8] Antonello Savaglio, I Saluzzo e il feudo di Corigliano. Vicende, strategie e committenze di una famiglia genovese in età moderna, Editrice Aurora, Corigliano Calabro, 2010, p. 165.
[9] Henry Swinburne, Voyages dans les Deux Siciles en 1777, 1778, 1779 et 1780, vol. I, Paris, 1785, p. 290. Per un approfondimento sui viaggiatori stranieri in Calabria cfr. Attanasio Mozzillo, Viaggiatori stranieri nel Sud, Edizioni di Comunità, Milano, 1964, pp. 681-688.
[10] G. Valente, La Calabria dell’Abate di Saint-Non, Edizioni Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1978, pp. 21-23.
[11] Horace Rilliet, Colonna mobile in Calabria nell’anno 1852. Tournée en Calabre, Casa del libro, Cosenza, 1962, pp. 45-46.
[12] Giuseppe Maria Galanti, Giornale di viaggio in Calabria (1972), edizione critica a cura di Augusto Placanica, Società editrice napoletana, Napoli, 1981, p. 110.
[13] Ivi, p. 109.
[14] Umberto Caldora, Stranieri in Calabria durante il dominio francese, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», a. XXV, 1957, fasc. III, pp. 341-343.
[15] Ivi, p. 347.
[16] Ibidem.
L’autore dedica questo breve saggio a un caro amico scomparso recentemente, dott. Enzo Viteritti, divulgatore culturale per oltre trent’anni di Corigliano Calabro e fonte preziosa di informazioni.
Riccardo Berardi
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 72, agosto 2013)