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Anno II, n° 6 - Febbraio 2008
Clandestinamente
esseri umani privi
di futuro dignitoso
di Alessandro Crupi
Nel libro di Infinito Edizioni due facce
di una stessa medaglia: la condizione
dei disperati e la repressione europea
L’immigrazione clandestina è una problematica che non può essere affrontata e discussa con superficialità o tramite un semplice colpo di legge noncurante dei drammi umani che si nascondono dietro ogni viaggio della speranza. Tuttavia, è anche vero che la complessità della questione in oggetto e le sue diverse implicazioni in campo politico e sociale sono di portata talmente vasta che non suggeriscono scelte facili da parte di chi governa, pur se ciò non costituisce un alibi o una scappatoia per far finta di niente.
La prima pubblicazione di Gabriele Del Grande, Mamadou va a morire. La strage dei clandestini del Mediterraneo (Infinito edizioni, pp. 160, € 14,00) offre a chiunque la possibilità di capirne di più e riflettere su uno dei principali temi d’attualità della nostra epoca, aiutati in questo anche dall’esperienza diretta dello stesso autore che porta per mano il lettore in un avventuroso quanto drammatico itinerario nella difficile condizione di chi, ad un certo punto, decide di dire basta ad una vita di stenti e dalle prospettive inconsistenti per costruire un futuro dignitoso. Decisioni, queste, che, condivisibili o meno, impongono una seria riflessione in quanto testimoniano immensi disagi e ristrettezze, inseriti all’interno di un sistema politico locale ed internazionale caratterizzato da contraddizioni profonde, corruzione e scelte discutibili.
Del Grande, giornalista appena venticinquenne, ha deciso di rompere il muro del silenzio che impregna l’opinione pubblica e, con lucida determinazione, si è lanciato nell’osservazione del fenomeno immigrazione che lo ha portato a fondare, lo scorso anno, “Fortress Europe”, un osservatorio in tempo reale sulle vittime dell’immigrazione clandestina ma, soprattutto, a compiere un intenso viaggio di tre mesi lungo le rotte più battute, dai migranti al largo delle coste africane e asiatiche con destinazione “l’Europa dei sogni” che, però, tende a respingerli.
L’Introduzione, curata da Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto privato e di Diritti umani presso l’Università di Palermo e componente di diversi organismi che operano a favore di migranti e richiedenti asilo, fornisce il contesto politico delle vicende trattate, che diventa la chiave di lettura per far confluire al lettore l’intento del giornalista.
Una lunga scia di lutti e la lotta per la sopravvivenza
Con Mamadou va a morire l’autore descrive, con dovizia di particolari e attenzione ai singoli dettagli, questa sua avventurosa esperienza mostrando un volto nuovo dell’immigrazione clandestina, ben diverso e molto più completo di quello che i media ci dipingono e che gli stati presentano ai propri cittadini, omettendo, forse volutamente, certe crude realtà, senza neppure lasciare immaginare i tanti drammi che si nascondono dietro ogni strage di clandestini al largo del Mediterraneo, riportati da un piccolo trafiletto di giornale o da un minuscolo comunicato stampa di agenzia.
Nove capitoli in cui l’autore passa in rassegna storie di persone comuni raccontate direttamente dai protagonisti, abitanti di Marocco, Senegal, Tunisia, tutti accomunati da uno stile di vita “alla giornata”, contrassegnato da tanti espedienti per tirare avanti, privi di un lavoro stabile che gratifichi le loro aspirazioni e gli anni gettati sui libri (si trovano anche laureati sui “barconi”).
Uno stato che non aiuta, facendosi beffe dei diritti umani, che non garantisce alcun cambiamento per il futuro, una classe politica che, puntualizza Del Grande, utilizza il denaro pubblico «per arricchire le proprie famiglie» e un animo logorato dal carico di una vita che, giorno dopo giorno, assume, sempre più, i connotati di una lotta alla sopravvivenza.
I protagonisti sono in maggioranza giovani che sembrano quasi trascinarsi in ogni momento della loro esistenza trangugiando, loro malgrado, una situazione che tende a bombardare il piacere della vita e a tarpare le ali delle loro aspettative. Gente che, come tutti, vorrebbe essere parte attiva di un’esistenza dignitosa si ritrova, invece, a vivere in perenne trincea con, a pochi chilometri di mare, il bagliore di speranza in un simile paesaggio dalle tinte fosche chiamato Europa. Le emittenti radio-televisive italiane e spagnole, il cui segnale, dalle loro parti, giunge chiaro, alimentano l’immaginario collettivo di un eldorado a portata di mano riversando una cascata di input invitanti: i campionati di calcio, il benessere, i macchinoni…
E allora perché non partire? Il rischio di non farcela finendo risucchiati dal mare o di essere rispediti indietro nel paese d’origine è altissimo ma coloro i quali ci provano preferiscono giocarsi la carta più importante, quella della vita, pur di migliorare la loro condizione piuttosto che sopportare un’esistenza priva di spina dorsale. Costantemente, nel corso della narrazione, Del Grande si fa assistere dalla presenza di un testimone sempre diverso che racconta al giornalista gli episodi più significativi della sua esperienza di clandestino scampato alla morte.
All’interno delle vicende, l’autore lascia spazio anche ad altri elementi contingenti caratterizzati da una crudezza che non viene nascosta all’attenzione del lettore. Si tratta di una scelta voluta dallo scrittore per sensibilizzare un’opinione pubblica che, altrimenti, sarebbe portata a valutare il problema sulla base delle informazioni piuttosto ridotte e, a volte, frammentarie degli organi mediatici. Ci riferiamo, in particolare, ai momenti di violenza spropositata che i clandestini subiscono nel momento in cui vengono scoperti poco prima della partenza, in fase di rimpatrio e, successivamente, nei centri di detenzione, alla commistione tra la polizia africana e i cosiddetti passeurs (gli “scafisti”) in cambio di denaro e ancora alle numerose deportazioni dei rifugiati a cui non è concesso il diritto di asilo e che, per il rimpallo di responsabilità tra stati, vengono sbalzati da un luogo all’altro come oggetti, vivendo in condizioni di assurdo degrado fisico e umano.
La «Fortezza Europa»
Mamadou va a morire è un libro che si trasforma in un appello di sensibilizzazione, rivolto principalmente all’opinione pubblica, alle istituzioni europee e di riflesso, ovviamente, agli stati di provenienza dei clandestini. Fin dall’Introduzione di Paleologo, infatti, emerge la volontà di gettare un sasso nello stagno dei paesi avanzati che, nell’idea dell’autore, a livello istituzionale e di società civile, affrontano il problema dell’immigrazione clandestina con azioni e comportamenti eccessivamente sbrigativi, al limite dell’indifferenza avvertendo, quasi, il fiato sul collo di quel fenomeno che Del Grande definisce con l’espressione «invasione che non c’è». Una frase ricorrente agli occhi del lettore che mette in evidenza un sentimento di ansia diffuso, al limite della psicosi.
Scorrendo questa linea di pensiero, l’Unione Europea vede i clandestini solo come dei nemici che insidiano i suoi confini e che, una volta entrati, possono attentare alla sicurezza del suo territorio anche per presunti legami con il terrorismo internazionale, collusione, fra l’altro, mai dimostrata. Da ciò deriva il concetto della «Fortezza Europa», riproposto più volte da Del Grande che, partendo dalla riflessione precedente, fa apparire l’insieme degli stati che compongono questa realtà politica come un grosso e prezioso tesoro da difendere, anche a costo di adottare provvedimenti discutibili che sacrificano la vita ai componenti delle “carrette del mare”. Esempio pratico? Il crescente impegno per la militarizzazione delle frontiere tramite la missione “Frontex”, che si traduce concretamente in una fase di pattugliamento delle acque territoriali, a cui fa seguito l’immediato allontanamento verso il paese di provenienza delle imbarcazioni dei migranti in prossimità dei confini, senza curarsi se una tale azione provochi il rovesciamento delle stesse con conseguenze facilmente desumibili. A ciò seguono i divieti alle navi mercantili e ai pescatori di soccorrere le imbarcazioni in difficoltà. Una serie di misure, insomma, che contraddicono il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana stabilito da tutti i documenti comunitari e l’osservanza sia della legge del mare che delle convenzioni internazionali sul salvataggio di imbarcazioni in pericolo da accompagnare in porto sicuro.
L’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), che si occupa della protezione internazionale e dell’assistenza agli esuli, con l’obiettivo di perseguire politiche che allevino la loro drammatica condizione, non dimostra, inoltre, di avere un peso determinante, soprattutto nei rapporti con i paesi d’origine e di transito dei migranti. La via d’uscita a questa situazione paradossale, al fine di evitare le tragedie del mare, viene identificata nel rafforzamento del ruolo delle Ong, vale a dire di quelle organizzazioni indipendenti dai governi che agiscono come strumento di pressione politica per conseguire vari obiettivi, tra cui l’osservazione dei diritti umani. A ciò si aggiunge, inoltre, un forte auspicio nella vigilanza delle istituzioni europee, nella vigilanza delle istituzioni europee sull’applicazione delle norme comunitarie e nella cooperazione tra le iniziative degli enti locali e le stesse Ong, scansando così il giro perverso dei passeurs e il militarismo delle frontiere.
Il messaggio di Mamadou va a morire è chiaro: l’Unione Europea, per affrontare degnamente un problema così importante rispettando i principi fondamentali (tra cui i diritti umani) che sono alla base della sua esistenza, deve preoccuparsi, anzitutto, di perseguire politiche di impegno civile e non impiegare le proprie forze per un’ansiosa “caccia al clandestino” scomodando le armi.
I dati sull’afflusso di imbarcazioni sul Mediterraneo, inoltre, smentiscono l’efficacia di questa condotta. Nonostante l’uso della forza, è, forse, diminuito, in tutto questo tempo, il numero di coloro che prendono la via del mare? Assolutamente no. Anzi…
Alessandro Crupi
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 6, febbraio 2008)