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Anno II, n° 6 - Febbraio 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 6 - Febbraio 2008

Zoom immagine La concezione della pena di morte
attraverso la letteratura mondiale

di Ennio Masneri
Un viaggio storico-letterario da Parini fino ai giorni nostri sulla nascita
del rifiuto della pena capitale in un volume edito da Edizioni Associate


Fin dalla notte dei tempi l’uomo ha dovuto affrontare fino alle soglie del nuovo millennio numerose problematiche legate alla politica, alla società, al progresso. Ogni secolo ha segnato sempre un passo in avanti nell’evoluzione materiale e filosofica dell’uomo. Le conoscenze che noi attualmente possediamo, e che i nostri figli e nipoti possederanno un giorno, rappresentano il nostro passato e vengono usate, nel bene come pure nel male, nel nostro presente. Tutti i secoli sono stati contraddistinti dalla lotta tra il bene e il male.

Senza cadere nell’approfondimento teologico, l’uomo è sempre stato un animale. In natura esiste da sempre la legge del più forte. Come abbiamo detto, l’uomo si è evoluto, non in un singolo individuo, ma in una società; evolvendosi, infatti, il singolo individuo si è riunito con altri individui per il raggiungimento dei bisogni e del bene comune fin dalla preistoria. Nasce, quindi, la coscienza del gruppo che in seguito diventerà la società civile in sé. Malgrado gli individui si siano prima imposti le consuetudini degli avi e poi le abbiano trasformate in leggi (come i Greci, i Romani, ecc.) per regolare il sistema della società di quel tempo, l’uomo rimane sempre un animale.

 

La duplice funzione della pena di morte

La differenza basilare tra l’uomo e gli animali è che il primo ha sempre avuto consapevolezza di sé, l’intelligenza e la capacità di adeguarsi alle situazioni più disparate, anche a quelle pericolose. Infatti, si suole sempre dire che gli animali più pericolosi del mondo siano proprio gli uomini perché oltre a cacciare e vivere, posseggono la capacità di riflettere, combattere, rubare, uccidere per rapinare, per odio (e attualmente anche per futili motivi), ma, a differenza dei leoni, degli uccelli e di quant’altro faccia parte del regno animale, sanno anche punire. Si punisce per impedire che si uccida di nuovo. Fin dai tempi più antichi la concezione di fermare chi va contro le regole della società ha sempre spinto l’uomo a inventare strumenti di punizione sempre più duri del carcere come la pena di morte. In un viaggio temporale che va dalla cicuta di Socrate, al colpo di mannaia del boia medievale, alla ghigliottina della Rivoluzione francese, alle famigerate camere a gas del nazismo, alle torture e alle fucilazioni di detenuti nei sanguinari regimi comunisti, alle sedie elettriche delle carceri americane, alle impiccagioni in piazza degli stati musulmani più estremisti, l’uomo ha sempre percorso la storia cercando di perfezionare quest’arte macabra. A volte, ha dichiarato di agire in nome della dignità del detenuto, della volontà di farlo soffrire meno, a volte dando eclatanti spettacoli (i condannati uccisi nelle naumachie o sui palchi dei teatri in epoca romana, le impiccagioni nel West statunitense, le fucilazioni davanti al pubblico cinese, ecc.) al fine di dare un deterrente, una sorta di “avviso”. Non bisogna comunque dimenticare che le condanne a morte hanno colpito anche persone innocenti…

La pena di morte serviva, in conclusione, per un duplice servizio: punire il condannato che si era macchiato di crimini gravissimi (soprattutto per aver privato della vita altri) e quindi eliminare un soggetto potenzialmente pericoloso per la società, e usare la sua morte come deterrente per gli eventuali futuri assassini.

Ma, per quanto riguarda quest’ultimo concetto, è come, tanto per usare una metafora, tenere chiusa una fiera di enormi proporzioni in una gabbia per canarini, poiché l’uomo uccide e ucciderà sempre, in quanto è nella sua stessa natura animale. Poiché ci differenziamo dagli animali per l’evoluzione della nostra intelligenza e autocoscienza, c’è stata, nel tempo, anche una presa di pensiero da parte dello stesso uomo sui propri limiti. E un passo fondamentale di questa pensiero è testimoniato in modo efficace dal libro di Antonio Salvati, dal titolo Patiboli di carta. Scrittori e pena di morte, la nascita di una coscienza moderna di rifiuto della pena capitale (Edizioni Associate, pp. 256, 14,00), che racchiude la storia filosofica del rifiuto della pena di morte (intesa come limite umano) e della sua evoluzione nel tempo.

 

Il pensiero evolutivo sulla pena capitale

La pena di morte ha sempre fatto riflettere l’uomo sulla sua utilità nei confronti dell’insieme degli individui, cioè della società civile in sé. È giusto punire o no con la privazione della vita? È di qualche utilità uccidere chi ha ucciso? A chi può giovare la morte di un condannato, sia pure un omicida? Non si commette forse lo stesso reato di cui si è macchiato in vita l’assassino? Non si mette dunque allo stesso livello giustizia e morte? Queste sono alcune delle domande che si è sempre posto l’uomo attraverso le sue riflessioni filosofiche, teologiche e politico-sociali, quando una volta, un bel giorno, ha preso coscienza della propria e continua evoluzione. Nella letteratura mondiale si sono affrontati questi annosi “perché”. Ormai si è permeati di cultura cristiana che predica la carità e quindi conosciamo tutti il noto comandamento: «Non uccidere», in quanto si priva la vittima della vita, il più bel dono di Dio. La vittima come il suo carnefice (Adolf Hitler, Josif Stalin, Pol Pot, Fidel Castro, ecc., la storia ne è piena, di mostri), perché, al di là del bene e del male, al di là del manico del coltello assassino e del pulsante della corrente elettrica, siamo tutti uguali davanti a Dio.

Il libro di Salvati espone, infatti, il pensiero dei vari scrittori che hanno analizzato, su posizioni diverse, la cosiddetta pena di morte.

In un viaggio che parte da Giuseppe Parini e finisce ai giorni nostri con Khaled Hosseini (l’autore del recente romanzo Il cacciatore di aquiloni), si ripercorrono le testimonianze della filosofia del privare la vita a chi l’ha tolta e si nota, insieme al progresso, alla concezione sociali, all’ammortizzamento delle punizioni più crudeli, un’evoluzione del pensiero che dimostra in pratica il dissenso generale contro la morte dei condannati. Anche se con un po’ di ritardo…

Infatti, dice Mario Marazziti nella sua interessante Prefazione che «la coscienza del mondo sul tema del rifiuto della pena capitale, è molto tardiva. C’è infatti, accanto alle osservazioni intime, sociali, culturali, civili, della letteratura […], anche il grande libro che non c’è qui la lunga, a volte desolante teoria di pagine dei pilastri del pensiero occidentale, greco, cristiano, illuministico, europeo tout court, tutte accomunante dall’accettazione della pena di morte come ovvia, necessaria, un dato della vita della giustizia come la si pensava e si conosceva fino a non molto tempo fa». E, poco dopo, aggiunge: «[Il lavoro di Salvati, Ndr] ci comunica il senso della fatica dell’umanità nel giungere a una soglia più alta di rispetto della persona umana, della vita, fino a una giustizia che mai può essere solo distributiva ma che non può che aspirare ad essere riabilitativa e a rispettare in ogni caso o circostanza, la vita umana, pena la negazione del principio su cui si fonda la società civile stessa».

Sull’utilità della pena capitale come deterrente ritorna lo stesso Marazziti: «Un ripensamento della pena capitale è partito anche dallo stesso pensiero utilitaristico, perché “un uomo impiccato non serve a nulla” (Voltaire), perché secoli ininterrotti di esecuzioni “non hanno mai distolto gli uomini determinati nell’offendere la società” (Beccaria)». E come afferma giustamente lo stesso Cesare Beccaria, che per primo mise in discussione la pena di morte, considerata non soltanto inutile ma anche sbagliata: «[…] la pena di morte non è mai un deterrente per l’asprezza della pena, mentre ciò che risulta essere deterrente non dipende dalla durezza ma dalla certezza della sanzione inflitta». Certezza, quindi, della condanna, ma non la morte, che non serve ormai a nulla, se non a ridurre i costi di mantenimento del detenuto nel carcere. Tale cambiamento di pensiero parte e attraversa la seconda metà del Settecento sulla concezione della sacralità della vita di ogni uomo e di ogni donna.

 

Perché questo libro?

L’opera di Salvati è, tanto per usare le parole della sua Presentazione, «un semplice contributo per la conoscenza del rapporto fra pena di morte e letteratura, prendendo in considerazione testi letterari prodotti dagli inizi dell’Ottocento ai giorni nostri. La finalità prefissata non è di svolgere un’analisi letteraria propriamente detta, quanto effettuare una sorta di ricognizione di posizioni sul sistema penale e sulla pena di morte espresse da letterati di un certo rilievo e non. […] La consapevolezza […] è il gran ruolo che la letteratura e l’espressione artistica nel suo complesso hanno svolto e possono continuare a svolgere, a favore della promozione dei diritti civili e della dignità umana».

Nelle pagine, a partire da Giuseppe Parini, vengono elencati storicamente scrittori e poeti famosi come Victor Hugo, Honoré De Balzac, Alessandro Manzoni, Oscar Wilde, Leonardo Sciascia, fino ad arrivare ai più recenti Mario Luzi, John Grisham e infine a Khaled Hosseini. Ogni autore è preceduto da una piccola biografia e dalla sinossi della sua opera che riguarda l’analisi e il dissenso della pena capitale. Salvati analizza i testi di ogni scrittore, riportandone i brani, li commenta e fa conoscere al lettore (con tanto di note storiche e bibliografiche) le sue riflessioni, basate su un lavoro raccolto e ben ordinato, senza scendere in stili altisonanti. Con una ricca bibliografia, che comprende oltre a titoli in lingua italiana anche libri francesi e inglesi, un’interessante filmografia (come il bellissimo e suggestivo film Fino a prova contraria (True crime) di Clint Eastwood) e alcuni titoli di canzoni (su tutte, La ballata degli impiccati del nostro Fabrizio De Andrè), si chiude l’interessante apologia della vita, dei diritti umani e della dignità del condannato.

 

Conclusioni

Attraverso questi e altri scrittori si assiste a un cambiamento del pensiero filosofico rispetto a quelli che sostenevano, invece, la pena capitale. Questi ultimi erano filosofi come, in ordine cronologico, Platone, Aristotele, Immanuel Kant, pensatori religiosi come S. Agostino e S. Tommaso, pensatori protestanti come Lutero e Calvino, utopisti come Tommaso Moro e Tommaso Campanella e molti altri ancora fino al più recente Benedetto Croce. Nella sua Presentazione, infatti, l’autore denota come «il pensiero filosofico sulla pena di morte è purtroppo desolante. Le opinioni dei grandi classici della filosofia sono prevalentemente, monotonamente a favore».

Quindi si assiste a un confronto iniziato seconda metà del Settecento e che si protrae fino ai giorni nostri. Un confronto fatto a suon di carte tra gli oppositori e i sostenitori della privazione della vita di coloro che si sono macchiati di colpe gravissime. L’uomo, come abbiamo detto sopra, è per natura portato a uccidere, in una sorta di desiderio di potere. Grazie alla ragione, alla consapevolezza dei propri limiti e della presenza degli altri componenti della società, grazie ancora agli insegnamenti della cristianità e a un mondo basato sul consumismo dove molti, non tutti purtroppo, possono evitare di uccidere per depredare, l’uomo uccide di meno. Continuerà ad uccidere per amore, per piacere, per denaro, per gelosia, per banali motivi, ma non merita per questo di venire a sua volta ucciso. Chi commette un efferato omicidio deve essere punito con il carcere a vita, in quanto condannato dalla giustizia sociale in base alle proprie azioni, ma non potrà mai essere una giustificazione, un’azione giusta, macchiarsi del suo stesso sangue. In tal modo si diventa assassini per legge.

E Antonio Salvati, con la sua analisi nella quale difende la vita e la dignità dell’uomo, lo spiega bene.

 

Ennio Masneri

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 6, febbraio 2008)

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