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Ferramonti di Tarsia:
il ricordo collettivo
dei sopravvissuti
al folle Nazifascismo
di Rossella Michienzi
Testimonianze di vite “a mezz’aria”
degli internati, da Pellegrini editore
La memoria rappresenta un elemento costitutivo della nostra identità: un soggetto che vive solo nel presente o nella promessa di un futuro è un soggetto che non sa chi è, e un soggetto che non ricorda è un soggetto che non esiste, così come non esiste una collettività se la stessa non va a edificarsi su un passato condiviso. Ne consegue che la memoria, in tutte le sue forme (individuale, collettiva, culturale, ecc.), rappresenta un elemento fondamentale per tutti i membri di una società. Tra le memorie più complesse degli europei vi è quella traumatica dell’Olocausto. Diversi autori hanno ricordato e analizzato quegli eccidi considerandoli nel loro infinito “macrocosmo” di barbarie. Pochi però hanno tentato di mettere in evidenza quanto accadeva in quello stesso arco temporale a livello locale. È proprio in questa cornice che si inserisce Non solo Ferramonti. Ebrei internati in provincia di Cosenza (1940-1943) (Pellegrini editore, pp. 184, € 15,00), un brillante testo di Leonardo Falbo che mette in evidenza la “causa” degli ebrei internati nei comuni del cosentino e le varie connessioni con l’ambiente storico di fondo.
Un mondo da scoprire oltre Ferramonti
Il Novecento è stato più volte definito come “il secolo dei genocidi”, e la durezza che lo ha caratterizzato ha di volta in volta rivelato caratteristiche differenti: violenze territoriali, guerre causate dalla voglia di sopraffazione, aggressioni volte al mantenimento del potere geopolitico, soprusi di origine etnica, ideologica, legati alle grandi religioni che si sono create attorno e dentro stati totalitari o dittatoriali, lotte fratricide, tra cittadini della stessa nazione, economiche e mosse dalla ricerca assoluta del potere. In ogni conflitto uno strumento fondamentale di mobilitazione è l’identità: più numerose sono le identità apparentemente poste in pericolo, maggiore è l’emotività che può spingere a individuare un nemico contro cui indirizzare la propria reazione, scegliendo la violenza come opposizione. Non è un caso che il nemico costruito con maggiore efficacia nel corso del Novecento – l’ebreo per il regime nazista – abbia prodotto una violenza che ha fatto ricorso a tutte le caratteristiche sopra elencate. Probabilmente è in questo che risiede quella che viene chiamata “l’unicità della Shoah”. Gli elementi incisivi però non sono l’intensità, le motivazioni o il carattere premeditato e finale della distruzione messa in atto, bensì la coesistenza di tutti questi elementi. È la compresenza di tutti i tipi di violenza possibili presenti nel genocidio degli ebrei che ne fa un evento storico di particolare e unico rilievo nel panorama dello scorso secolo. Un evento di dimensioni “industriali” costruito minuziosamente e, potremmo quasi dire, “dal basso”, da piccoli centri che non hanno voluto o potuto opporsi al regime.
Qui si inserisce il testo di Falbo, che riporta alla luce la grossa macchina distruttiva non nella sua potenza malefica a livello internazionale, ma a livello locale. Come si accennava, i riflettori sono puntati sulla provincia di Cosenza, dove il più esemplare caso di internamento è rappresentato da quello che ormai è divenuto un vero e proprio luogo della memoria: Ferramonti.
È doveroso qui fare un passo indietro: all’indomani dell’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, ebrei, apolidi, nemici stranieri e slavi furono internati in uno dei principali campi di concentramento creati dal regime fascista: quello di Ferramonti, appunto, nel comune di Tarsia (Cs). Si tratta di un luogo in cui l’umanità è sopravvissuta alla macchina più grande e distruttiva che l’essere umano sia mai stato in grado di generare, alla follia devastatrice imperante in Europa durante la guerra; quello che si pone davanti agli occhi è un luogo i cui protagonisti principali sono stati il grande coraggio e la vera e sincera nobiltà d’animo di ufficiali e cittadini della zona che hanno saputo rassicurare e osservare con uno sguardo “umano” uomini, donne e bambini che in altri campi di concentramento sarebbero stati uccisi. Qui la memoria è uno spazio “salvifico” dove è possibile rimarginare delle ferite, trovare un riscatto. Qui il destino di migliaia di persone è stato strappato alla violenza e alla morte. Solo successivamente alcuni hanno realizzato l’orrore della Shoah che si stava consumando negli altri lager d’Europa, mentre loro vivevano una realtà diversa dentro il campo calabrese. Un piccolo esempio, un’eccezione che permette a sua volta di costruire “una tradizione negativa” di ciò che è accaduto nel Novecento, non a caso definito come il secolo dei genocidi. Come ben argomentato nel testo di Falbo, probabilmente fu proprio l’assenza di un finale drammatico a contribuire alla costruzione dell’oblio attorno agli avvenimenti che hanno riguardato gli internati nel campo di Ferramonti. Infatti, in seguito all’avanzata degli alleati, gli internati, tornati in libertà, non conobbero la tragedia della deportazione nei campi di sterminio del Reich. Al contrario, nonostante il filo spinato, nella vasta valle del Crati era nata una comunità ebraica vivace e colta.
Ma cosa c’era oltre Ferramonti? Falbo tenta di dare una risposta a questo quesito: «In Calabria, più specificatamente nella provincia di Cosenza, il regime fascista aveva dato prova inequivocabile del suo odio antisemita, del suo disprezzo per qualsiasi idea di libertà e di democrazia: migliaia di uomini, donne e bambini ebrei provenienti da varie regioni italiane [...] furono internati nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia ed in molti altri comuni, sedi del cosiddetto “internamento libero”». Il caso di Ferramonti, infatti, si presenta positivamente “anomalo”, un caso in cui l’isolamento ha contribuito a creare una comunità di rapporti e valori sani.
L’internamento libero e un vivere sospesi nel nulla
Con questo libro l’autore offre un piccolo ma importantissimo contributo nell’intento di colmare una lacuna profonda nella ricerca storica calabrese. Falbo, attraverso una ricostruzione ben documentata, consente il riaffiorare nella memoria collettiva di una modalità poco conosciuta della persecuzione antisemita operata dal Fascismo, il cosiddetto “internamento libero”. L’autore ricostruisce le vicende di 156 ebrei, tra uomini, donne e bambini, il rapporto con le comunità locali e, in casi sporadici, il drammatico epilogo ad Auschwitz. «Gli ebrei internati nella provincia di Cosenza erano in grande maggioranza provenienti dalla Polonia, ma non mancavano gli ebrei tedeschi, austriaci, cecoslovacchi, ungheresi e romeni. La ricerca di Falbo riguarda in particolare una ventina di località calabresi, per lo più piccoli e isolati comuni del cosentino, tranne i pochi casi a maggior carattere “urbano” di Castrovillari, Rossano e Corigliano».
Nella sua Prefazione al volume, Vittorio Cappelli mette in evidenza la valenza dell’indagine condotta dall’autore: «Il quadro che risulta dalla ricerca mostra il carattere pervasivo e diffuso della persecuzione antiebraica anche in una remota periferia, dove le parole d’ordine del regime in termini di razzismo ed antisemitismo giungono assai smorzate e sfumano infine fino a scomparire nella dimensione solidaristica delle comunità locali, dove il senso di territorialità derivante dall’antico isolamento aveva il suo reciproco nel culto dell’ospitalità».
Sono diverse e tutte estremamente affascinanti le sfaccettature del libro di Falbo: pagina dopo pagina guidano il lettore in un viaggio dai contorni tutti da definire, attraverso testimonianze ora agghiaccianti ora commoventi. Per quanto possa sembrare surreale, ciò che si definisce come “internamento libero” è caratterizzato dalla totale assenza di libertà. Come testimonia un ebreo apolide internato a Tortoreto: «Nessuno veniva affamato, torturato, ucciso o maltrattato ma pur tuttavia eravamo privati della libertà… L’inutilità e l’incertezza della nostra situazione, la totale mancanza di qualsiasi prospettiva, la noia di quell’esistenza si insinuavano giorno dopo giorno tra le pieghe dell’animo. Eravamo come sospesi nel nulla». E non è tutto: alla limitazione delle proprie libertà, alle misere condizioni di vita, si aggiungono spesso le drammatiche separazioni familiari. Esemplare, il caso della famiglia Schwarzmann-Weintraub, che subì una diaspora particolarmente dura che la portò a peregrinare lungo tutta l’Italia. Esperienze di vite non spezzate, ma lasciate a mezz’aria, di vite sofferte e caratterizzate da costanti binomi: la speranza e la rassegnazione, la libertà e la reclusione, la felicità e il dolore. Nel testo l’autore coniuga sapientemente testimonianze di vittime o parenti delle vittime che fanno emergere i disagi di intere famiglie. Particolarmente emozionante è una lettera di un anziano ebreo internato a Spezzano della Sila, che dà voce all’angoscia e al dramma delle famiglie sparse per il mondo. Il libro ricostruisce un mosaico di storie che trasmette al lettore dolore, sopraffazione e soprattutto disperazione, così come affetto, solidarietà e amore.
Rossella Michienzi
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 68, aprile 2013)