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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Storie amare
di ieri e oggi
di Rossella Michienzi
I “galantuomini”
e la loro vita.
Da Pancallo editore
«È stato lui a incoraggiarmi a leggere i libri di storia perché dice che la storia insegna a vivere perché è maestra di vita». Diversi racconti messi insieme per guidare il lettore attraverso eventi ed episodi, descritti in maniera dettagliata ed ambientati in vari tempi e luoghi del Mezzogiorno d’Italia. Tanti piccoli esempi di un’unica storia che si ripete: quella legata alla “gente d’onore”, ai “galantuomini” che poi in realtà galantuomini non sono. Historia magistra vitae? Ciò che è stato dovrebbe insegnarci a vivere il tempo presente, evitando gli errori passati, tentando di considerarli fertile humus per un futuro migliore, anche se capita spesso che alcune cose non cambino: basti pensare alle organizzazioni criminali, che non fanno altro che reiterare gli stessi, identici codici “etici” di una società parallela a quella della legalità.
Un progresso che procede al contrario
I racconti di Francesco E. Nirta riuniti in Vicende di gente d’onore (Franco Pancallo editore, pp. 158, € 12,00) fanno riflettere da molteplici punti di vista. Si pensi, anzitutto, all’arguta suddivisione del testo in due macrosezioni: la prima, dedicata alle storie di ieri, la seconda, più vicina a noi, dedicata alle storie di oggi. Una ripartizione che dà la possibilità di ripercorrere i tempi, i modi di fare e di ragionare delle “persone d’onore”.
Elemento necessario alla comprensione del testo è il concetto di “galantuomo”. Secondo l’accezione più nota, il “galantuomo” è colui il quale può ritenersi un uomo leale, onesto, dai principi e dai comportamenti retti, soprattutto nei rapporti con gli altri; poi c’è la definizione più nota nel Mezzogiorno, riferita cioè ad una condizione sociale (possidente, benestante, borghese), un termine utilizzato più in particolare per designare i residui della classe dirigente borbonica, ed i nuovi ricchi formatisi profittando dello sfaldamento del latifondo nobiliare, per lo più in contrapposizione alla classe dei contadini. Il libro di Nirta rimanda all’intramontabile “epoca dei galantuomini”, in cui le classi agrarie avevano la peggio, sì, ma in cui era forte e percettibile l’apertura dei ranghi del pubblico impiego alla borghesia, spesso ignorante, del Sud. «In origine, i beneficiari appartenevano ad una classe bloccata, imbalsamata nella staticità di rapporti economicamente regredienti, anche a causa della crescita numerica dei suoi componenti, a sua volta frutto della generale crescita demografica. Ridotti in miseria dallo stato che essi stessi avevano adottato, battuti dagli scambi diseguali con le società industriali, impossibilitati ad aprirsi nuove strade, quando potevano si rifacevano sui contadini, che erano il loro antagonista sociale interno e peraltro vincibile soltanto con l’aiuto delle piumate milizie padane. Ma il soccorso più consistente gli arrivava da una certa libertà a truffare lo stato» [1].
Luigi Pirandello, pur puntando ad altra tematica letteraria e filosofica, ne descrisse con vigore insolito, specialmente nelle Novelle per un anno, i drammi, la meschinità, la fragilità, la miseria spirituale.
È proprio così: una storia che si ripete, che ha radici profonde e che, via via, dà vita ad un progressivo impoverimento di reali valori etici. I racconti, che ripercorrono vicende, per così dire, quotidiane, da ieri ad oggi, mostrano un vero “progresso al contrario”: se nelle prime pagine incontriamo un “uomo d’onore”, Pietro Nespoli, brutalmente accoltellato per aver mancato di rispetto alla moglie, nelle ultime pagine del testo il lettore si confronta con persone che si macchiano di omicidi, di crimini rimasti impuniti, che fondano i loro strumenti di vita su loschi commerci di droga.
L’onore alla base di una società parallela bramosa di potere
Francesco E. Nirta passa in rassegna sotto gli occhi dei lettori una sfilata di personaggi, tutti caratterizzati da un affascinate profilo psicologico. Non solo uomini: largo spazio viene dato anche alle donne, compagne di vita, sagome coraggiose di uno scenario in cui alla base di tutto si trova il rispetto, riconosciuto come patrimonio spirituale di tali uomini e ad esse affidato o, meglio, affidato in parte alla loro moralità, l’altra parte invece era destinata al rispetto della parola data. Il quadro che emerge dal testo, soprattutto nei primi racconti, è quello di persone diffidenti rispetto al valore dello studio e della cultura, secondo loro, possibili cause di sovversione. L’unica figura professionale accettata era quella del medico, ma soltanto perché poteva essere utile in qualunque momento.
Atteggiamenti tipici delle persone colluse con organizzazioni di stampo mafioso. Per quanto riguarda quella calabrese, molto si può già capire dall’etimologia della parola ʼndrangheta o talvolta anche ʼndranghita. Il termine deriva dal greco – da cui i dialetti calabresi sono fortemente influenzati – andragathía, traducibile con “valore, prodezza, carattere del galantuomo”. Una delle regole cui un “galantuomo” deve sottostare è l’estremo rispetto per la donna appartenente all’onorata società e soprattutto, come si legge in un dialogo, egli «deve tenersi lontano dalle donne degli altri galantuomini, perché con la donna di ceto inferiore certe cose possono farsi, la donna di uno di noi merita rispetto».
Delitti d’onore, prigionie, commerci illeciti e profonde spaccature sociali: i racconti permettono di riflettere sul come “gente d’onore” abbia formato la solida base di una piramide che nel tempo ha visto crescere la sua altezza e la sua “maestosità”. Oggi le organizzazioni criminali si nutrono della stessa linfa vitale di ieri: alcuni racconti celano in maniera sottile anche la compartecipazione delle organizzazioni mafiose nelle attività formalmente legali, ed essa, purtroppo, «non rappresenta certo una novità, anzi è storicamente un tratto distintivo della loro capacità di affermarsi e mimetizzarsi all’interno della società» [2].
Identità calpestate
Tra le cose che maggiormente attirano l’attenzione di chi legge il testo di Nirta c’è, sì, lo stile di vita di persone appartenenti all’“onorata società”, ma anche tutto ciò che è al di fuori di essa. Tanti passaggi dei racconti permettono di capire i sentimenti di chi si comporta secondo morale, senza far del male a nessuno, di chi, appunto, comprende appieno la necessità di avere civicness.
È il caso del personaggio di Giovanni Guardabassi, costretto ad acconsentire al matrimonio tra sua figlia e Vittorio Valente, a sua volta figlio del temibile Antonio Valente. Un’unione a cui Giovanni non si poteva opporre ma che al tempo stesso fu motivo di rispetto da parte dei concittadini e di tutti coloro che gli stavano attorno. Fu allora che Giovanni si rese conto che non era stato nessuno, che iniziava a brillare di luce riflessa. Ma è davvero luce quella?
Esemplare il discorso di Pulicano, un uomo solo, senza famiglia, né lavoro, né parenti, né nome e cognome, a Ciro “galantuomo”: «Ciro, voi, facci caso, avete tutti la stessa espressione, sempre seria, preoccupata, come chi ha sempre pensieri in testa. […] Fate gli uomini ma non siete uomini perché non sapete né ridere, né piangere, e chi non ride e non piange mai non è un uomo, forse è una bestia, non lo so, so solo che non è un uomo».
Queste parole di grande umanità racchiudono il senso e la profondità di un testo, come quello di Nirta, da assaporare in ogni sua parola, per capirne la vera essenza.
[1] Cfr. Nicola Zitara, L’unità d’Italia. Nascita di una colonia, Jaca Book, Milano, 1971.
Rossella Michienzi
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 67, marzo 2013)