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Home Page (a cura di Francesca Folino) . Anno VII, n. 67, marzo 2013

Zoom immagine Prigioni d’Italia: essere detenuti
nel degrado del sistema-carcere

di Luciana Rossi
Da Pacini editore, viaggio nel paradosso di una “giustizia” illegale.
Nei penitenziari con Unione camere penali e Osservatorio carcere


È dell’8 gennaio 2013 la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che condanna l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Cedu (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali): «Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il nostro paese dovrà quindi risarcire i titolari del ricorso – sette detenuti degli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza – per circa centomila euro complessivi e adottare entro un anno provvedimenti che pongano rimedio all’attuale ineffettività dei ricorsi interni a disposizione dei detenuti in materia di sovraffollamento, cioè che consentano, in sostanza, ai detenuti di ricorrere direttamente presso i tribunali italiani.

Questo grave episodio fa seguito a una prima analoga sentenza del luglio 2009 sul caso di un detenuto di Rebibbia, a Roma, e fronteggia una schiera di più di 500 ricorsi già presentati alla Corte europea. Come è possibile che in Italia, nella nostra illuminata e matura democrazia, vengano lesi quotidianamente i più elementari diritti umani?

La notizia della sentenza di Strasburgo, rimbalzata dai giornali e dai mezzi di comunicazione e ampiamente commentata, turba, ma in fondo non sorprende, meno che mai chi lavora nelle realtà carcerarie italiane o con esse interagisce per lavoro costantemente, denunciandone da tempo le carenze e gli orrori.

 

Aprire la porta

È nel quadro di questa “emergenza carceraria” conclamata (e proclamata) da anni che si pone l’iniziativa dell’Osservatorio carcere, organismo dell’Unione camere penali italiane, per la pubblicazione di Prigioni d’Italia. Viaggio nella realtà delle carceri (Pacini editore, pp. 96, € 12,00).

L’obiettivo, nell’ambito di un più esteso progetto dell’Unione, che raggruppa oltre 130 Camere penali in tutta Italia, è intercettare l’opinione pubblica e l’interesse dei media attraverso modi di comunicazione sempre più efficaci, per dare voce anche a chi non riesce a farsi udire. Per «aprire la porta» del carcere anche ai cittadini liberi, almeno virtualmente, e far uscire – se non altro dalla loro condizione di muto isolamento e di oblio/rimozione da parte della società – gli esseri umani che ivi sono reclusi, privati non solo della libertà, ma anche della dignità e dell’accesso alla rieducazione e riabilitazione, che secondo il dettato costituzionale (art. 27) dovrebbe rappresentare la finalità primaria della pena.

L’obiettivo è portare alla ribalta, davanti agli occhi di tutti, il paradosso vivente di una giustizia che quotidianamente viola la legge e, con il supporto di un’analisi attenta svolta sul campo, presentare all’attenzione dei politici e dei legislatori anche delle proposte concrete. Non è la prima volta che vengono avanzate delle proposte, ma purtroppo molte volte esse si arenano, per assecondare un consenso elettorale di massa forgiato ad arte sulla paura, mentre spesso è proprio un sistema penitenziario inadeguato e non riabilitativo ad alimentare la pericolosità sociale, in una sorta di circolo vizioso nefasto e inarrestabile. E in virtù di una millantata “sicurezza” si finge di ignorare che la recidiva, dopo sette anni dalla fine della pena, è del 19% tra gli ammessi a misure alternative, mentre di ben 68% tra chi ha scontato tutta la pena in carcere.

Il libro dà conto di circa due anni (dal 2010 al 2012) di lavoro sul carcere svolto dall’Unione e dall’Osservatorio carcere, che attraverso una capillare azione sul territorio nazionale vigila e interviene sul rispetto dei diritti civili e della dignità dei detenuti. Alla pubblicazione di questo volume, realizzata anche grazie alla coraggiosa “alleanza” di Pacini editore, si sono affiancate e si affiancano altre iniziative di comunicazione, tra cui l’organizzazione di tavole rotonde e convegni, con annesse visite agli istituti penitenziari locali, e la produzione di un filmato esplicito, circostanziato e drammaticamente efficace, realizzato nelle carceri italiane e prodotto nel gennaio 2012 (http://www.youtube.com/watch?v=ZpQcINKwivA): 12 minuti circa di immagini, numeri, citazioni testuali, musiche e «il lugubre rumore delle carceri italiane» che raccontano più di mille discorsi.

Completato da due ricchi capitoli finali dedicati a stimolanti interventi e relazioni congressuali e interessanti documenti tratti dagli archivi dell’Unione e delle Camere penali, il libro offre spunto a riflessioni concrete e realistiche, sfatando luoghi comuni, sollevando problemi e immaginando soluzioni. Il tutto viene reso utilizzando un linguaggio necessariamente “tecnico” in certi punti, tuttavia ampiamente comprensibile a tutti.

 

I punti cardine dell’azione

Della situazione carceraria italiana si parla molto, anche se non abbastanza, specialmente in tempo di elezioni, e anche grazie ad iniziative quali lo sciopero della fame di Marco Pannella, per citarne solo una, e non pretenderemo certo di dare un quadro esaustivo delle problematiche di una realtà così complessa.

Molto si parla ad esempio di numeri e statistiche, di detenuti e posti disponibili, di un tasso di sovraffollamento del 142%, anche nei telegiornali, ma guardando più da vicino – come gli autori di questo libro hanno fatto – ci si rende conto che questo “gioco dei numeri” non corrisponde alla realtà, perché la capienza nominale degli istituti (a volte anche indicata come “tollerabile”) nella grande maggioranza dei casi visitati è ulteriormente ridotta dalla presenza di interi reparti inagibili o in ristrutturazione, per alcune migliaia di posti nominali ulteriormente indisponibili sul territorio nazionale. Come scrive il presidente dell’Unione camere penali, Valerio Spigarelli, nella sua appassionata Prefazione: «Puoi ragionare quanto vuoi sul sovraffollamento, comparare cifre e confrontare tabelle con i loro metri quadri in bella evidenza, ma nulla è paragonabile alla visione di uomini giovani ed anziani che ti guardano dalla terza fila di un letto a castello il cui materasso sfiora il soffitto. E stanno lì sdraiati, a turno, perché non c’è spazio per stare in piedi tutti assieme. Puoi sgolarti nei convegni per far comprendere a qualche anima bella che il diritto alla salute è un valore costituzionale, che in carcere vale come da qualsiasi altra parte, ma quando vedi un cesso alla turca usato come dispensa non sai bene se vergognarti o distogliere lo sguardo, e alla fine fai tutte e due le cose assieme». E che dire dei bimbi reclusi insieme alle mamme?

La sentenza di Strasburgo certifica l’esistenza di un problema strutturale all’origine del sovraffollamento carcerario: un problema che non si risolve con l’edilizia, ampliando i penitenziari o costruendone di nuovi, né con occasionali indulti, ma che richiede interventi incisivi sul codice penale e sulla legislazione in generale al fine di prevedere un maggior ricorso a sanzioni e misure alternative, lasciando la pena detentiva come extrema ratio. A cominciare dalla revisione delle prassi relative all’istituto della custodia cautelare, se si pensa che ad oggi circa il 40% dei detenuti sono presunti innocenti in attesa di giudizio. Un dato allarmante.

Bisogna poi vigilare e agire anche su un piano culturale/sociale più esteso, affinché sia effettivamente possibile, per i magistrati e i soggetti, preposti decidere con serenità l’applicazione di quanto consentito dalle leggi vigenti in materia di misure alternative, senza che debbano confrontarsi con il timore di essere censurati dall’opinione pubblica, spesso nutrita di luoghi comuni.

Vi sono poi normative altamente criminogene, come quelle che penalizzano i recidivi nell’accesso ai benefici penitenziari, quelle che prevedono il carcere per i tossicodipendenti e quelle che criminalizzano l’immigrazione clandestina.

 

Il cartello delle associazioni

Uno dei punti di forza dell’azione dell’Unione camere penali è di aver «contribuito a creare un cartello di associazioni che include anche rappresentanze degli agenti penitenziari, dei funzionari ministeriali, di componenti della Magistratura, per superare barriere e steccati ed affrontare in maniera razionale ciò che troppo spesso la classe politica tratta sotto la spinta della emotività». Questo elemento si è dimostrato importante per favorire la convergenza di tutte le componenti del mondo associativo che si occupano di carcere, riuscendo a far recepire soluzioni concrete da parte del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia), ma anche portare proposte di legge all’attenzione del Parlamento. È il caso del documento Sovraffollamento: che fare? promosso nel luglio 2011 da Acli, Associazione nazionale giuristi democratici, Antigone, Beati i costruttori di pace, Cgil-Fp, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Magistratura democratica, Ristretti orizzonti, Unione camere penali italiane, a cui hanno aderito le associazioni “A buon diritto”, “Arci”, “Forum droghe”. Il documento elenca alcune proposte specifiche, quali: limite all’utilizzo della custodia cautelare in carcere, abrogazione della legge cosiddetta ex Cirielli (sulla disciplina del “recidivo reiterato”), modifica della legge Fini-Giovanardi in materia di sostanze stupefacenti, disposizioni relative agli immigrati condannati, maggiore e più rapida applicazione delle misure alternative al carcere, introduzione della messa alla prova anche per gli adulti, introduzione di entrate scaglionate in relazione alla capienza, chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), tutela dei diritti e istituzione del Garante.

In seguito agli incontri tenutisi in quell’occasione, il Dap recepì poi alcuni suggerimenti trasfondendoli in una circolare, Proposte minime di riduzione del danno da sovraffollamento carcerario, contenente misure operative atte a fronteggiare la stagione estiva, come ad esempio docce più frequenti, apertura dei blindati anche nelle ore notturne, disponibilità di borse termiche o di ghiaccio per conservare il cibo o raffreddare le bevande consentite, distribuzione di acqua potabile, ecc. Misure elementari, poi estese anche alla gestione ordinaria della detenzione, che per la loro semplicità quasi sorprendono noi cittadini “liberi” abituati alle nostre comodità, a frigoriferi e finestre e la dice lunga sulle condizioni di “emergenza umanitaria” in cui versano certe realtà penitenziarie. Ma anche una borsa del ghiaccio, anche una doccia possono fare molto lì dove non c’è nulla.

Il cartello delle associazioni è poi impegnato anche su altri importanti temi, tra i quali l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, a favore del quale è stato sottoscritto un appello.

 

Viaggio nella realtà delle carceri

«Entrare in carcere, e poi raccontarlo, è stato ed è un “gesto politico”», sottolineano gli autori.

Il viaggio Dentro le mura del carcere, annunciato nel sottotitolo e contenuto nel secondo capitolo del volume, riporta il racconto di alcune delle visite effettuate in diversi istituti penitenziari in tutta Italia, da Nord a Sud, da dicembre 2011 a luglio 2012. Si tratta di resoconti puntuali, che descrivono gli ambienti, gli spazi, le tipologie delle varie sezioni, i servizi a disposizione dei detenuti, dal parlatorio all’infermeria, alle docce, agli ambienti di lavoro o ricreativi, all’assistenza psicologica/psichiatrica, all’organizzazione degli orari, ecc. Si fa inoltre riferimento alle condizioni di vita, al grado di interazione con il tessuto sociale circostante, alla situazione del personale di polizia penitenziaria, alla presenza o meno di associazioni di volontari, nonché all’atteggiamento dei direttori. Esposizioni in qualche modo asettiche, volte a dare conto della realtà senza pietismi e tuttavia senza limitarsi a un elenco di dati e statistiche, ma aguzzando lo sguardo e i sensi per vedere e sentire il carcere da dentro, per cercare «il punto di vista degli altri, di chi in carcere vive per lavorarci, e spesso non ci riesce, di chi in carcere è recluso senza neanche più ricordarne il motivo», per conoscere e far conoscere «la realtà che è fatta di volti, nomi, passi avanti e cadute».

Scorrendole, si ha veramente l’impressione di viaggiare dentro il carcere, di vedere e sentire quelle realtà diversificate, quelle storie frammiste, in cui esseri umani quotidianamente si battono per la difesa di diritti elementari.

Allo stesso tempo la granularità di queste esperienze e realtà dà quasi l’impressione di una guerra che si vince “dal basso” nel piccolo, nel migliorare piccole cose ma importanti: iniziative dei singoli istituti, la riforma di un articolo di una legge, potenziare l’applicazione di quanto già consentito, perché il “sistema carcere” è talmente popoloso, articolato e interconnesso e (potenzialmente) esplosivo che anche una piccola modifica nel bene e purtroppo anche nel male – moltiplicandosi a valanga – può portare grandi effetti.

Per quanto questo suoni ovvio, è certo più facile commuoversi di fronte ai bambini del terzo mondo, di fronte ai cuccioli destinati alla vivisezione (tutte cause sacrosante, per carità), mentre l’argomento carcere ci pone di fronte alle nostre contraddizioni inconsce, alle immagini oscure della psiche, evocando l’idea del giudizio, perché quelli che stanno in carcere, si sa, sono “i colpevoli” (e purtroppo non è nemmeno sempre così), “i pericolosi”, “i cattivi”, e allora ci mettono in crisi, non sappiamo da che parte stare. Da che parte? Dalla parte della legalità, questo lo spartiacque che ci può ispirare. Dalla parte di una pena che non sia inutilmente crudele, della penitenza che non umili ma riabiliti. Dalla parte di una società che sia sì sicura, ma anche capace di riaccogliere e reintegrare.

 

«Fate presto

Due giorni prima della sentenza di Strasburgo, il 6 gennaio 2013, un detenuto somalo di 38 anni, Mohamed Abdi, si è tolto la vita impiccandosi in una delle celle dell’infermeria del penitenziario di Borgo San Nicola, a Lecce. Era detenuto da circa un anno per reati contro il patrimonio. Solo uno dei tanti casi in un sistema penitenziario dove, se non si riesce più a sopportare di vivere, quasi quotidianamente si muore.

Nel 2010 vi sono stati 184 detenuti morti nelle carceri italiane, di cui 66 suicidi; nel 2011 il triste bilancio è stato di 186 morti, di cui 66 suicidi; nel 2012 al 6 settembre i morti ammontavano a 110 (76 in più rispetto a marzo dello stesso anno), di cui i suicidi a 39 (26 in più rispetto a marzo dello stesso anno).

E non abbiamo ancora contato Mohamed Abdi e chissà quanti altri come lui. «Un decesso ogni due giorni – un suicidio ogni cinque giorni» recitano gli striscioni affissi da “Il carcere possibile onlus” della Camera penale di Napoli a marzo e settembre 2012.

E non è tutto, svela la Prefazione: «Tanti, troppi morti, da una parte e dall’altra, verrebbe da dire, visto che tra i dati che ogni Direttore ci indica, dietro le nostre insistenze, c’è sempre quello di chi si uccide dentro il carcere, i detenuti, ed anche quello di chi lo fa fuori, tornato a casa, gli agenti». Forse un contatore simile dovrebbe essere affisso nelle piazze e nelle stazioni delle città, per ricordare a tutti che questa tetra realtà esiste e miete vittime, e per farci un pochino, se non vergognare o indignare, sentire inquieti e “scomodi” nella nostra ovattata vita quotidiana. Perché il degrado delle Prigioni d’Italia riguarda tutti e avvilisce il nostro paese e le donne e gli uomini che lo abitano.

Facciamo presto!

 

Luciana Rossi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 67, marzo 2013)

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