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Direttore editoriale: Graziana Pecora
Anno VI, n. 64, dicembre 2012
Alto ed echeggiante,
il grido di speranza
di padre Giancarlo,
vescovo antimafia
di Maria Rosaria Stefanelli
Da Piemme, un inno d’amore e pace
contro le “brutture” dell’illegalità
Un sorriso mite portato a spasso per le strade di una città che spesso sembra aver dimenticato come si fa a sorridere. Un animo gentile che si schiude tra le pieghe di un volto segnato, ma non rassegnato, che non si abbassa né si nasconde. È così che gli abitanti della Locride ricordano monsignor Giancarlo Maria Bregantini, vescovo della diocesi di Locri-Gerace dal 1994 al 2007. Una persona capace di sciogliere, con un solo sguardo, anche le più ostinate diffidenze grazie alla forza disarmante della sua semplicità. Padre Giancarlo, così lo chiamavano tutti, calorosamente, sentendo in lui l’appoggio e il conforto di un vero padre, premuroso e tenero con i suoi figli. Per questo, il suo trasferimento in Molise ha lasciato un segno profondo in una popolazione vessata, che in un primo momento si è sentita disorientata, abbandonata, orfana, perché aveva trovato in lui un solido punto di riferimento.
Questa reazione, però, è stata solo quella iniziale. Col tempo, la comunità ha compreso le sue ragioni (una su tutte: l’obbedienza) e continua a seguirlo ancora oggi con l’affetto di sempre, nella certezza di nutrire un sentimento ricambiato, nonostante la forzata distanza.
E il suo ultimo libro, Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia (Piemme, pp. 193, € 14,50), scritto in collaborazione con la giornalista Chiara Santomiero, si profila come un segno di continuità con il suo operato in questa terra, un modo per dire a quanti hanno confidato in lui «sono ancora con voi».
Una scelta coraggiosa
Il forte legame dell’arcivescovo con la Locride affiora dalla sua prosa onesta e schietta, che ripercorre tutti i momenti del suo vescovato a partire dal suo insediamento. Un episodio, questo, noto alle cronache per lo scompiglio causato e riportato fedelmente nel libro: quel giorno un ordigno posizionato sotto il palco – fortunatamente rimasto inesploso – mette in allarme la popolazione e le autorità intervenute per dare il benvenuto al nuovo vescovo.
Padre Giancarlo, però, non si lascia intimorire da quanto accaduto e non contempla, nemmeno per un attimo, quella che a tanti altri sarebbe potuta sembrare la soluzione più cauta e prudente: rinunciare all’incarico. Il religioso mantiene invece la calma e tranquillizza tutti sottolineando che, in fondo, non è successo niente e, con serenità, si prepara ad un compito che si preannuncia molto impegnativo, forse un po’ troppo per un giovane vescovo che non è nemmeno calabrese e non conosce ciò che può succedere da quelle parti. Chi nasce al Sud, in un modo o nell’altro, sa da sempre a cosa va incontro se decide di affrontare a viso aperto la ’ndrangheta. Conosce le regole del “quieto vivere” e del “tenersi alla larga” e cerca di rispettarle: tutti hanno occhi e orecchie, ma in determinati frangenti diventano improvvisamente ciechi e sordi, sovrastati dalla paura di mettere in pericolo se stessi, la propria famiglia, la propria attività lavorativa. In questo modo, più o meno consapevolmente, diventano complici della ’ndrangheta, silenziosi e compiacenti, spesso addirittura ossequiosi. Chi, come Bregantini, è cresciuto invece in Trentino o in un’altra regione, soprattutto del Nord Italia, è necessariamente al di fuori di queste logiche: ha l’incoscienza degli ignari, non ha idea dell’entità del pericolo e per questo, forse, riesce a fronteggiarlo con maggiore coraggio. Questa sua “incoscienza”, però, può essere un sostegno solo per i primissimi tempi: non deve aspettare molto per comprendere che l’omertà è la soluzione più conveniente per mantenere la propria incolumità e poter esercitare serenamente il proprio incarico. Perciò, se nel tempo la sua voce ha continuato a risuonare alta e sicura, non è stato per recidiva incoscienza, ma per la piena consapevolezza, che lo ha aiutato a fomentare il suo senso d’indignazione e a maturare l’idea che un altro mondo è possibile, anche in Calabria, ma solo se si ha il coraggio di opporsi e costruire, insieme, un’alternativa.
Esperienze di vita e di fede
Questo libro è, principalmente, la storia della vita di un uomo, in cui però la cronologia non è rispettata rigidamente: la prima parte inizia dal giorno in cui padre Giancarlo arriva a Gerace per il suo insediamento nella diocesi e continua snodandosi tra singoli episodi significativi vissuti nella Locride (il coraggio di rifiutare la scorta e camminare a piedi tra le strade del paese, i primi incontri- scontri ravvicinati con la mafia, le prime minacce). La seconda parte, che integra e completa la prima, narra ancora dell’esperienza nella Locride attraverso il supporto di alcuni episodi biblici che offrono lo spunto per raccontare momenti di vita molto concreti, come la nascita della cooperativa “Valle del Bonamico”, che Bregantini plasma sul modello (e con la collaborazione) delle cooperative trentine che tanta parte hanno avuto nella formazione del vescovo nei suoi anni giovanili. La terza ed ultima parte sposta la narrazione molto indietro nel tempo, agli anni della sua adolescenza, quando, per la prima volta, Bregantini entra in contatto col Sud grazie a un’esperienza estiva di volontariato a Catania; poi gli studi e l’ordinazione sacerdotale a Crotone, gli anni a Bari e, infine, la Locride. Curioso notare come, nella sua vita di uomo del Nord, ricorra molto più spesso il Sud, che gli offre più volte l’occasione di mostrare il suo duplice volto di prete e di operaio. Insieme agli operai di Crotone, infatti, arriva a sostenere perfino lo sciopero della fame, mostrandosi concretamente presente nella difficile battaglia – infine tenacemente vinta – di tanta gente che rischia di perdere il lavoro.
Non ha paura di combattere, Bregantini, nemmeno di fronte alla ’ndrangheta. E, dopo aver metabolizzato i diabolici meccanismi ad essa sottesi, si è speso per studiare le giuste contromosse per opporvisi. Il più grande segno di opposizione alla mafia è stato sicuramente la scomunica in seguito all’esplicito atto intimidatorio dell’avvelenamento dei lamponi della sua cooperativa nel marzo del 2006. Un segnale forte, eclatante, forse il più grosso affronto che un mafioso possa subire. Come è noto, la ’ndrangheta ha una forma di devozione piuttosto personale ma molto sentita, che trova espressione in alcune manifestazioni religiose che si sono trasformate in chiari simboli mafiosi, come la scelta del padrino del battesimo, ’u Sangianni, attraverso la cui designazione vengono creati, o rinsaldati, vincoli tra famiglie che stringono, così, un legame molto prossimo alla parentela.
Vincere con la bellezza
Bregantini si è dunque scagliato apertamente e duramente contro questo sistema. Nel suo libro spiega che esiste una strategia parallela per combattere la ’ndrangheta: la bellezza. Egli fa notare, mirabilmente, l’accostamento ossimorico tra la meraviglia con cui la natura ha dipinto questi luoghi e l’incuria dell’uomo che si prende il diritto di violarli, schiaffeggiarli e umiliarli con l’abbandono e la trascuratezza. L’amore per le cose e gli spazi in cui viviamo può costituire un modo alla portata di tutti per combattere la criminalità; una lotta pulita, pacifica ma efficace, perché contribuisce a svuotare la mafia di significato e a indebolirla, privandola del senso di onnipotenza sulla natura. A questo proposito, l’autore aggiunge che non basta prendere consapevolezza del male, segnalarlo e denunciarlo, occorre fare un passo in più: «A noi – chiesa e società civile, tutti e ciascuno – tocca il compito di andare oltre, di raccontare e valorizzare il positivo che già c’è, di seminare il bene e il bello, altrimenti si rischia di rimanere schiacciati dall’orrore, incastrati in una logica del male che fa emergere l’azione della mafia come vincente, oppressiva, senza speranza di redenzione, impossibile da vincere. […] È la volontà che cambia le cose. Ed essa trae energia e stimoli dal colore, dalla gioia, dal positivo, dalla speranza».
Pagine vive, scorrevoli, sincere. Un esempio di vero apostolato o, in senso più laico, di un’etica civile e morale inattaccabile, volta alla cooperazione e alla costruzione di un’idea autentica di comunità che, nelle parole di un uomo di fede come Bregantini, abbraccia naturalmente il senso cristiano del termine, ma, più genericamente, può essere letta come il desiderio di creare un gruppo di persone unite da comuni ideali quali la giustizia, la legalità, la trasparenza.
Questa è l’eredità che padre Giancarlo ha lasciato alla sua Locride ma, anche uscendo dai confini di questa terra bellissima e martoriata, il suo messaggio e la sua esperienza possono costituire un monito per tutte le coscienze, siano esse permeate da un’aura religiosa oppure no. Perché le sue pagine hanno un respiro universale: molto bello il passaggio, più volte richiamato, in cui l’arcivescovo contrappone la parola ormai – sinonimo di sconforto, sfiducia, destino ineluttabile – alla parola ancora, che racchiude in sé la speranza, il possibile, il cambiamento. Il senso d’ineluttabilità è il male di un’intera epoca e di intere generazioni, oltre che di un circoscritto lembo di terra. Per tale ragione queste parole possono diventare un monito universale.
Non il pedante scritto infarcito di sentenze moralistiche di un religioso, dunque, ma la testimonianza vera di un uomo semplice che ha incontrato, vissuto, sofferto e profondamente amato il Sud, una terra che – se solo l’accento nordico di Bregantini non lo tradisse così apertamente – si direbbe gli appartenga da sempre.
Maria Rosaria Stefanelli
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 64, dicembre 2012)
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