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Comunicazione e Sociologia (a cura di Ilenia Marrapodi) . Anno VI, n. 64, dicembre 2012

Zoom immagine Imprigionati
dalla rete

di Federica Lento
Solfanelli presenta
un’analisi accurata
sui rischi del web


Entrare in libreria, scorrere distrattamente tra i titoli che il mercato culturale ci propone e fermarsi incuriositi, forse anche un po’ punti nell’orgoglio, nel leggere su una copertina un insolito e inaspettato «informatissimi idioti». Di sicuro effetto, il binomio aggettivo-sostantivo utilizzato dal sociologo Franco Ferrarotti punta l’attenzione del lettore su un’analisi acuta di quello che la nostra società sta diventando. Non si tratta di un insulto gratuito: il termine “idioti” è da intendersi come “prigionieri nel web”; dalla versione più antica, il greco idiòtes, cioè “privato”, si è arrivati, in epoca romana e moderna, al significato di “inesperto”, “incolto”, in contrapposizione a colui che occupava e occupa una carica pubblica e quindi “colto”, “capace”, “esperto”. Rispetto a questa competenza dell’erudito, Ferrarotti oppone l’incompetenza dell’assiduo frequentatore della rete, quella che informa senza formare e che rende l’essere umano schiavo di un mondo virtuale. Più che una servitù volontaria, si tratta di una vera e propria rinuncia alla libertà personale. L’autore, nel suo saggio Un popolo di frenetici informatissimi idioti (Solfanelli, pp. 104, € 9,00), parla degli individui contemporanei come di una generazione che si tuffa consapevolmente e volontariamente nella prigionia, sottoponendosi al servizio di sconosciuti padroni della nostra quotidianità con la smania di chi pensa di aver ottenuto piena libertà di espressione.

 

La rete globale che ci imprigiona e ci rende soli

La disponibilità di accesso al web dà l’impressione di una grande libertà d’azione, invece nasconde trappole letali, peggiori di qualsiasi divieto di espressione. La rete è diventata una sorta di Panopticon contemporaneo, quel carcere prototipo ideato nel 1791 dal filosofo Jeremy Bentham. L’idea alla base del Panopticon (che tutto fa vedere) era quella che un unico guardiano potesse osservare (optikon) tutti (pan) i prigionieri in ogni momento, portando alla percezione, da parte dei detenuti, di un’invisibile onniscienza del guardiano, che li avrebbe condotti a seguire sempre la disciplina, con il risultato di avere un unico modo possibile di comportamento, trasformando così indelebilmente il loro carattere.

Il mostro dell’omologazione, denunciato da Pier Paolo Pasolini in tempi non ancora sospetti, controlla il comportamento, le opinioni, i desideri, le inclinazioni e il pensiero di milioni di persone senza essere visto. La sottomissione volontaria al nuovo Panopticon, tuttavia, non è dovuta al bisogno di nitidezza e razionalizzazione, ma al desiderio di ritrovare una condizione di condivisione che è venuta a mancare nella società postmoderna, come risultato dell’indebolimento dei legami personali. È la voglia di comunità e comunicazione, di far parte di un tutto e di essere riconosciuti come individui, che spinge a ricercare nella rete ciò che è andato perduto nella realtà quotidiana: «Un’intera generazione che appare nello stesso tempo informatissima di tutto, comunica tutto a tutti in tempo reale, ma non capisce quasi nulla e non ha niente di significativo da comunicare» la definisce Ferrarotti.

La critica che muove il professore all’eccesso di informazione-disinformazione della rete è il fatto di essere un fenomeno incontrollato e incontrollabile: «Internet, priva della critica delle fonti, è la grande pattumiera planetaria e paratattica, in cui gli individui vanno quotidianamente affondando». La rete globale semplifica i processi costruttivi e linguistici e lo sviluppo di un pensiero critico, sottraendosi a un maggiore impegno mentale. Il rischio in cui incorre chi si informa e si forma esclusivamente con Internet è quello di non essere in grado di distinguere le informazioni vere da quelle fasulle, rimanendo comunque da solo nella sua illusoria ricerca di conoscenza e condivisione.

 

Il lutto di un’intera società

Nella società “liquida” che ha contraddistinto e forse segna ancora la nostra epoca (come sappiamo, la discussione sulla fine del postmoderno è tuttora aperta), si susseguono una serie di “morti” che gettano nel lutto l’umanità. La morte del pensiero e con essa del poter pensare; la morte dell’oggetto libro, con le case editrici che da luoghi di artigianato si muovono sempre più freneticamente verso una spersonalizzata catena di montaggio della cultura; la morte della vita attiva, dove i giovani da «ragazzi di vita», come li definiva Pasolini, si trasformano in passivi spettatori davanti a uno schermo; la morte del concetto di qualità, sostituito da quello prepotente della quantità dove non è importante il “cosa si conosce” ma il “quanto sommariamente se ne ha idea”; la morte dell’università che da struttura selettiva è diventata di massa, in cui il valore dell’individuo singolo perde di significato; la morte della memoria, perché ormai non c’è più nulla da ricordare e tutto ciò che c’era da raccontare è stato detto.

La soluzione auspicata da Ferrarotti consiste nella sintesi tra cultura umanistica e cultura scientifica, da ricercare «in uno spirito critico che non confonde la funzione con la funzionalità», garantendo la capacità di valutazione critica globale delle situazioni storiche specifiche, in base ad una nuova commistione tra umanesimo e tecnica. Per sviluppare questo senso critico bisogna dunque riprendere coscienza di sé, dei valori del singolo, delle eccellenze, allontanarsi dalla pericolosa tentazione costante della massificazione e del conformismo che i nuovi media ci servono. Il saggio di Franco Ferrarotti, con il suo titolo volutamente provocatorio, ci sprona a farlo.

 

Federica Lento

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 64, dicembre 2012)

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