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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Le Madri coraggio
di Plaza de Mayo
e i desaparecidos
di Guglielmo Colombero
Edito da Città del sole un libro
a due facce sulla tragedia argentina
«La vicenda dei desaparecidos argentini ha qualcosa di inaudito, anche rispetto alle troppe storie conosciute di genocidi e stermini ricorrenti e presenti dappertutto nelle aree del mondo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Con la pianificazione e il sostegno persino assillante della dirigenza dell’epoca della “più grande democrazia del mondo”, il duo Nixon-Kissinger, con la benedizione di fatto, quando non anche formale, della quasi totalità della Chiesa argentina (e la poco meno che indifferenza di quella Vaticana), con la “neutralità” se non la complicità più o meno marcata e costante della grandissima parte dei Paesi liberali occidentali, nonché perfino dell’Unione Sovietica e della Cina “comunista”, soprattutto per le massicce relazioni economiche che questi ultimi Paesi mantenevano con quello Stato, e con la partecipazione attiva della rete neofascista internazionale supportata (soltanto?) dalla loggia massonica P2 italiana, il golpe argentino del 1976 procede alla sistematica e “aggiornata” eliminazione di qualsiasi forma di “sovversione” interna al Paese». Così Lino Gambacorta stigmatizza il periodo più atroce della storia argentina, quello compreso fra il 24 marzo 1976 e il 30 ottobre 1983, in Storie argentine (Città del sole, pp. 110, € 12,00). L’autore, nato a Reggio Calabria nel 1957, insegna Storia e Filosofia nei licei fiorentini e da sempre opera in associazioni come l’Aned (ex deportati politici nei lager nazisti) e la Lega internazionale per i Diritti e la liberazione dei popoli. Sulla tragedia dei desaparecidos ha già pubblicato, nel 2004, Storia di un hijo. La voce di un figlio di desaparecidos argentini, tra presente e memoria (edito da Città del sole).
Donne ferite che sfidano la più orrenda repressione
«Le Madres de la Plaza costituiscono il primo gesto dell’intera società argentina che esprime l’inaccettabilità – in quanto vite impregnate di affetti e di relazioni profonde con i momenti forti, con i rilievi della propria esistenza di persone comuni – di un “ordine” guidato da furori “estirpatori” e ispirato da assolutismi intrisi di devastanti deliri di onnipotenza». Gambacorta sintetizza efficacemente, senza incrostazioni retoriche, uno degli eventi cruciali della storia argentina del XX secolo: un secolo che inizia con l’affermarsi della democrazia nel paese, che prosegue con le prime convulsioni totalitarie (il golpe del 1930), degenera nella folle demagogia populista del peronismo e infine precipita nel baratro della “sporca guerra” e del disastro dell’avventura bellica delle Malvinas, per poi risollevarsi con il ritorno alla legalità costituzionale, e ancora inabissarsi nel gorgo del neoperonismo cialtrone di Menem.
Quelle donne coraggiose (alcune di loro, purtroppo, pagarono con la vita, aggiungendosi al numero dei desaparecidos) ridiedero orgoglio e dignità ad una nazione umiliata e infangata da mezzo secolo di colpi di stato militari.
La narrazione di quel periodo atroce della storia argentina è volutamente incolore. L’unica macchia cromatica, nelle prime, asciutte sessanta pagine del libro, è «il pañuelo bianco, simbolo tangibile della maternità indicata come nucleo della propria stessa identità. Il fazzoletto che ricorda i pannolini dei figli, un oggetto di uso quotidiano e nello stesso tempo intimo che lega l’esistenza di ciascuno alla storia collettiva». L’amarezza che sgorga da una perdita inguaribile non smorza però la sete di giustizia: gli assassini in divisa dovranno pagare il conto. «Se non vi è istituzione in grado di far ritornare i figli scomparsi, non vi è neanche alcun potere capace di cancellarne le orme: la desaparición torna incessantemente come un indistruttibile boomerang sui carnefici e sulla loro accecata volontà di distruggere un mondo». Gambacorta, studioso attento e rigoroso della realtà sudamericana, affonda il bisturi in quella che è l’essenza sadica e perversa di ogni dittatura militare, che culmina nel rapimento dei bambini, figli delle vittime della repressione scomparse nel nulla: «Nell’intenzione di “estirpare” lo stesso “germe della sovversione”, il regime decise infatti di appropriarsi dei bambini di pochi anni di età o addirittura neonati appartenenti alle famiglie dei “terroristi”, considerati alla stregua di un ennesimo “botín de guerra”, per consegnarli come una sorta di adozione clientelare e allucinata a esponenti delle stesse forze di repressione». Un anelito di speranza pervade l’epilogo di questa rievocazione insieme lucida e commossa: «Le Madres de la Plaza argentine hanno sempre espresso un bisogno che è anche un modo d’essere: quello di connettere – nel duplice essenziale senso di “comprendere” e “collegare” – memoria e giustizia, diritti e bisogni, contraddizioni e sforzi, consapevolezze e apprendimenti, lacerazioni e rinascite, sofferenze ed entusiasmi, la dimensione personale con la condivisione di ciò che è vivo: e, tutto questo, appunto, oltre se stesse».
Il silenzio di un padre ammutolito dalla ferocia del potere
Quello di Gambacorta non è un unico libro, ma due libri in uno: l’autore, prosatore di una raffinatezza che non può non essere debitrice a certe pagine del più grande scrittore argentino, Borges, spiazza il lettore con una repentina mutazione di registro nella seconda parte.
Cosa lega le due metà? L’esile filamento della memoria. Una memoria storica e collettiva nella prima parte, più intimista e raccolta in sé nella vicenda di Peppino, il mite musicista al quale la “sporca guerra” infligge un’insanabile mutilazione negli affetti.
A differenza del padre, «dinamico fino all’abbruttimento, introverso fino ad un quasi, innocuo, mutismo, e fissato in una figura di uomo sempre sull’orlo della vecchiaia», Peppino è posseduto da una «malinconia soffusa ma tenace, cullata a tratti dalle carezze sonore della voce di sua madre, sempre più sfocata e lontana». Vorrebbe imparare a suonare il violino, ma ripiega su una specie di fisarmonica, il bandoneón, strumento che «impara all’aria aperta, cerca echi larghi che gli ritornino a cordate dense, vuole galleggiare appoggiandosi a sudori danzanti e non può fare a meno dei visi». Ed è proprio suonando in una balera che Peppino incontra «la ragazza alta con i capelli rossi e gli occhi scuri, gli pare quasi che non tocchi terra quando la vede arrivare fra le coppie intrecciate che ormai ingrassano la festa, fino a sedersi a mezzo metro dalla seggiola dove il suo bandoneón quasi copre lui, piccolo e ritroso e importante». Si tratta di Ester, la sua futura compagna: il suono del suo nome è «il grazie più bello ricevuto, e sente che vorrebbe aggrapparsi a quel breve suono, anzi no, farsene carezzare, come si fa con le foglie confortanti nella stagione nuova». Nel bel mezzo della tragedia dei desaparecidos, Peppino intravede un cupo presagio di morte nell’automobile dei sequestratori, dai «fari urlanti nel crepuscolo profondo della costa», e assiste impotente alla scena da incubo in cui «due figure piegate vengono trascinate verso le strade perché l’auto rauca le ingoi recingendone la speranza. La ragazza sembra più grande del compagno ma pare una bambina e loro vedono senza scampo che è sangue quello che le riga il braccio sinistro». Tempo dopo, l’onda lunga della guerra sucia verrà a lambire anche la soglia dei suoi affetti più intimi, lasciandolo annichilito.
L’epilogo di Gambacorta è fremente di strazio interiore, e dal punto di vista letterario si conficca nella mente come una lama: «Qualcuno gli ha detto che altri padri si affacciano ogni tanto anch’essi alla piazza della storia, uno alla volta, e hanno nomi che dicono della varietà del mondo degli uomini. Può darsi, chissà, che una musica di passione tenue rivolta a respiri non solo umani, aiuti anche loro a guardare un giorno con meno disperazione l’acqua del fiume cieco».
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 63, novembre 2012)