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Letteratura contemporanea (a cura di Francesco Mattia Arcuri) . Anno VI, n. 62, ottobre 2012

Zoom immagine Viaggio nella memoria collettiva
per tornare alle proprie origini
e confermare la propria identità

di Serena Poppi
Da Pellegrini editore, la provincia
e la sua resistenza alla modernità


«Alina è la portinaia del palazzo ed è peruviana. Nonostante viva in Italia da dieci anni e abbia sposato un italiano, parla la nostra lingua come Mamy di Via col Vento e declina i giorni della settimana con un accento originale: lùnedi, màrtedi,  mèrcoledi, ecc. ecc.

- Mi dica Alina, è successo qualcosa?

- Lei scusare se io chiamare mentre dottoressina lavora, ma io avere qui davanti due signori con grande pacco, un mobile per lei.

- Come un mobile?

- Sì dottoressina, un grande mobile mandato per lei».

Ed è così che Cecilia, la protagonista del racconto, riceve in dono quello che sarà il simbolo della sua famiglia, delle sue tradizioni, della sua terra d’origine, portati sempre con sé racchiusi dentro un armadio. Questa la parte finale del romanzo di Celeste Macchia dal titolo L’armadio di zio Lorenzo (Pellegrini editore, pp. 126, € 12,00), a raccontare quella che è la spinta che anima l’intimità della protagonista o, vogliamo intuire, dell’autrice, che vivendo a Torino riesce a tornare all’amato Sud semplicemente aprendo le ante dell’antico mobile.

Più che un romanzo personale, questo è un romanzo generazionale – come sottolinea Pasquino Crupi che ha curato l’Introduzione – che si misura con i fatti della vita quotidiana, quindi con i rapporti interfamiliari e relazionali, con le tradizioni e le credenze di un’età vista con gli occhi di altra età. Non vengono raccontati eventi straordinari, ma fatti normali, con cui chiunque si confronta nella propria vita quotidiana. Ma forse è proprio in questo che sta l’interesse del romanzo, perché la semplicità di un’esistenza “normale” cela meccanismi comportamentali che determinano il nostro modo di essere e di sentire ciò che la vita ci riserva.

 

Le ingozzate, i festeggiamenti e le tarantelle…

La scusa per raccontare ciò viene dal viaggio intrapreso al paese d’origine, un paese del Sud Italia, dove vivono parenti ed amici, dove è possibile assistere alla festa patronale, simbolo incontrastato della cultura popolare. In tale viaggio – del corpo e della mente – Cecilia ascolta i racconti dei parenti più anziani ed in particolare quelli di zio Lorenzo, il pazzerello della famiglia, che durante i momenti più floridi della sua vita ne ha combinate di cotte e di crude, facendo intendere alla nipote quante sfumature abbiano l’ubbidienza ai genitori, il rispetto delle regole sociali… e quelle relazionali.

Ad esempio, quando viene commesso il furto all’arcivescovado, e come onta viene lasciata sulla scrivania del vescovo un’«enorme cacata», padre Castelli e Luigi, il sacrestano, vengono incaricati di scovare il colpevole, ma «Sherlock Holmes e Watson non cavano un ragno dal buco. L’unico elemento, a loro disposizione, è quella enorme cacata che con molta attenzione, per evitare di inquinare le prove, viene raccolta e messa in un barattolo di latta». Tale prova verrà poi consegnata al commissario di polizia don Brunuzzu, conosciuto come «sbirru di nasu», evidentemente per il suo fiuto speciale. Inutile dire come verrà scoperto il colpevole.

 

Il Mezzogiorno

Il Sud, «che è diventato memoria senza nostalgia regressiva, trascinata dal passato al presente dove l’occhio descrittivo di Celeste Macchia si trasforma in occhio mnemonico. In occhio meridionalista. Lei vede e ci fa rivedere quello che c’era: il paese, affollato di umili e fiocchettistiche presenze, il paesaggio storico e sociale, così come determinato dalla storia del Mezzogiorno. E, in conseguenza, ci fa vedere quello che poi è avvenuto: la spersonalizzazione del paese del Sud, senza più confini con la geografia fisica, sociale e umana del Sud».

Questa parte del romanzo è probabilmente la più bella, perché forse la più sentita e centrale rispetto al messaggio che vuole intendere l’autrice: non che si voglia insinuare che esista una precisa tesi dimostrata dai racconti descritti, perché Macchia non lancia un messaggio da raccogliere. La giovane scrittrice, infatti, si colloca come osservatrice di ciò che la circonda, e nei confronti di ciò che descrive non emerge denuncia, grido o al contrario esaltazione partigiana. Semplicemente – e non è avverbio scelto a casaccio – ripropone quei ritmi e quelle considerazioni di vita, tipiche di famiglie numerose, di famiglie meridionali, con un’acuta ironia, con quella leggerezza che, ben lontana dalla superficialità, lascia al lettore la libertà di scegliere per se stesso la “morale” più adatta.

«- Ma ha visto quanto pesa il suo fardello?! Osserva l’hostess.

- Quanto pesa? Ribatto sorpresa.

- La bellezza di 30 Kg!

“Caspita! I peperoni ripieni sono pesanti in tutti i sensi”, pensò, regalandole un sorriso sardonico».

 

L’autrice

Come evidenziato anche nella presentazione che l’editore propone del testo, di Celeste Macchia, pseudonimo, «nulla sappiamo: né chi è, né se è alla sua prima prova di scrittura». Dunque, nessun dato biografico. Dalla scelta del nome, però, possiamo cogliere fin da subito quella sottile e delicata ironia di una scrittrice che vuole lasciare una macchia celeste, come il cielo, che dall’alto ci ricorda quanto vasto e senza confini sia il sentire umano.

 

Serena Poppi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 62, ottobre 2012)

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