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Graziana Pecora
Anno VI, n. 62, ottobre 2012
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Politica ed Economia (a cura di Alba Terranova) . Anno VI, n. 62, ottobre 2012

Zoom immagine L’esperienza della guerra
con gli stenti e la prigionia
per non farci dimenticare
il profondo senso della vita

di Maria Assunta Carlucci
Le memorie di un servitore della patria
pubblicate da Pellegrini editore


Moltissimi scrivono memorie delle angherie che hanno subito tutti coloro che hanno partecipato alle Grandi guerre. Molti, sotto forma di diario, riportano alla luce i vari avvenimenti susseguitisi durante quel periodo. Ma un diario – quasi la sceneggiatura di un film muto – di un personaggio così vicino a noi e alla nostra penisola forse non ce lo saremmo mai immaginato. È il calabrese Gregorio Corigliano, che con moltissimo coraggio mette a nudo la vita da soldato di suo padre regalandoci delle pagine nitide, piene, intense di quella che è stata la vita di un giovane ufficiale, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, poi imprigionato.

La cronaca del secondo grande conflitto del secolo scorso raccontata nel diario di Antonio Corigliano – padre di Gregorio e anch’egli scrittore –, dal momento in cui la gloriosa patria lo chiama al servizio militare di leva fin quando il dovere del servizio alla nazione non lo spinge così innanzi da farlo cadere in mano nemica, rendendolo prigioniero di guerra compone le pagine de I diari di mio padre 1938-1946 (Pellegrini editore, pp. 216, € 16,00).

 

Struttura del diario

Il diario è costruito in tre parti, suddivise dall’autore allo stesso modo in cui lo aveva suddiviso suo padre. La prima parte raccoglie la descrizione di una tappa del percorso di tutti i giovani fino al 2004: la partenza per il servizio di leva militare. Lasciare il nido, gli affetti, la propria terra per il dovere cui tutti i ragazzi al diciottesimo anno di età vengono chiamati dalla madrepatria. Una seconda parte in cui, mentre presta servizio come ufficiale e addestratore a Bengasi, in India, viene sorpreso dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Con un coraggio, un ardore, un senso del dovere non indifferenti si schiera coi suoi mitraglieri alla difesa della patria contro «quei mostri che cercavano di “portarci offesa”». Presso Bardia – cittadina della Libia a pochi chilometri dal confine con l’Egitto –, persa la battaglia, insieme ai suoi colleghi e militari viene fatto prigioniero dagli inglesi: inizia così una terza parte in cui il protagonista ci offre un ventaglio di emozioni che scuote l’animo di chi legge fin nel profondo. È in questa ultima parte che il egli decide di appuntare anche le date ogni volta che inizia una nuova pagina della sua storia, a volte segnando anche l’ora.

 

Una «vita senza vita»

La parte più corposa è costituita dal periodo che va dal gennaio 1941 al dicembre 1945 (anno dell’ultimo appunto) in cui il protagonista è prigioniero di guerra in mano inglese. Le descrizioni delle giornate vuote, delle calde estati, dei freddi inverni si susseguono con cadenza quasi perfetta: scansione di una «vita senza vita», come la chiama lo stesso protagonista. Poche cose tengono la mente occupata: i piccoli lavoretti, le letture, le lettere attesissime spedite dai cari, le pagine di un diario. Il susseguirsi degli avvenimenti mondiali viene seguito con trepidante attesa, con la speranza di essere liberati, speranza che puntualmente viene disattesa. Intanto per un ventisettenne – che non vuole arrendersi alla sua condizione di prigioniero, ma ha sempre viva la voglia e l’ardore di lottare insieme e per la sua patria – si affacciano i primi pensieri, le prime riflessioni da uomo adulto: «Che cos’è la vita se non una continua lotta contro il nostro io? Quell’io che spesso cerca di ribellarsi, forse inconscio degli sforzi che si fanno ed ognuno di noi è costretto a piegarsi per lasciare trascorrere tutto secondo un vecchio modo della natura: ma se è vero che tutto scorre e nulla permane, può ciò accadere per noi?». La paura di essere abbandonati a se stessi è forte, ma la speranza, quell’ultima fiaccola che arde dentro il petto, quella c’è sempre. È vero, la speranza è l’ultima a morire ed è lo sperare trascinante che porta, a volte, ad una gioia incontenibile: quella dell’esaudire il desiderio di essere finalmente un uomo libero.

 

Impressioni

Le parole di Antonio Corigliano vengono riproposte dal figlio Gregorio con esemplare attendibilità, avvalorata dalle copie delle copertine e prime pagine di ogni quaderno. Di tanto in tanto viene inserito un commento in corsivo volto a sostenere la narrazione, a scandire la personalità e il carattere del protagonista, oltre ad alcune fotografie, frutto della passione del protagonista. Infine, incluse nel libro troviamo anche le due attestazioni (la Croce al valor militare, 1955, e la Croce al merito di guerra, 1949) che Antonio Corigliano ricevette negli anni per la sua devozione alla patria.

È difficile pensare come a tanti anni di distanza si possa quasi sentire, provare e vedere tutto quello che il protagonista scrive. Eppure di questi protagonisti ce n’è almeno uno in ogni famiglia: chi non ha un nonno abbastanza avanti con gli anni che ha sempre tentato di raccontare ai nipoti e ai figli le sofferenze, le paure, gli stenti, le morti che hanno afflitto la vita di quanti hanno vissuto in quegli anni? Da bambini, un po’ scocciati da quelle che pensavamo fossero vanaglorie, non abbiamo mai pensato di sederci accanto a loro e ascoltare – ma ascoltare con il cuore – le parole di un anziano che ci sta solo dicendo che la vita non è solo quella che viviamo noi oggi, che le sofferenze vissute in passato non sono le stesse di quelle che noi viviamo oggi, che le continue lamentele di oggi ci avrebbero reso facili bersagli agli occhi dei nemici, che bisogna andare oltre con il cuore e con la mente. È questo il senso delle pagine di Antonio Corigliano: egli scrive non per sé, non per gloria, ma per lasciare ai fratelli, alle sorelle, ai nipoti un senso più ampio della vita, invitando a guardare oltre, ad essere coraggiosi, a non fermarsi davanti agli ostacoli, anche quelli più duri. Perché, scrive Eschilo in Agamennone, come riportato anche dall’autore all’inizio del testo, «la saggezza si conquista attraverso la sofferenza». E non solo la saggezza, verrebbe da aggiungere.

 

Maria Assunta Carlucci

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 62, ottobre 2012)

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