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Anno II, n° 5 - Gennaio 2008
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Riflessi d'autore (a cura di Pierpaolo Buzza) . Anno II, n° 5 - Gennaio 2008

Zoom immagine Sulla distopia ossia: storia di catastrofi letterarie
di Valentina Pagano
Che cosa si intende con questo termine? Un saggio edito da Meltemi
ce lo spiega in maniera dettagliata attraverso dei puntuali riferimenti


La classica produzione cinematografica ed editoriale ci ha visti ormai assuefatti alla figura dell’eroe romantico e temerario che trae in salvo dal pericolo imminente l’amata fanciulla che, con occhi languidi, dichiara il suo amore imperituro all’audace. Esiste, tuttavia, un percorso alternativo, tanto per la cinematografia quanto per l’editoria, che mette in campo un’altra figura, quella dell’antieroe: lo spettatore inerme della catastrofe imminente, seppur protagonista della storia.

In termini letterari questo nuovo percorso è definito “distopia”. Il motivo è lapalissiano: si tratta della “controparte dell’utopia”, intesa quest’ultima come il luogo dove tutto è come dovrebbe essere. La distopia è invece il luogo in cui tutto sta per accadere, il luogo del futuro, in cui la catastrofe molto probabilmente si verificherà e senza che nessuno possa o voglia combattere per mantenere o ricostituire l’assetto preesistente. Difficile da credere? Eppure, l’autore di Scritture della catastrofe (Meltemi, pp. 288, € 21,50), Francesco Muzzioli, dice proprio così: «Potremmo vedere allora nella distopia la forma contemporanea della tragedia. In essa, certamente, l’uomo fallisce al più alto grado, viene sacrificato addirittura come genere. […] Il sacrificio dell’eroe, non salva più la comunità. […] Non a caso, nella distopia non c’è più neanche un eroe degno del nome, capace di azioni straordinarie, ancorché sbagliate. L’eroe diventa, piuttosto, un osservatore inutilmente consapevole, che non può fare niente per evitare la catastrofe e anzi ne viene travolto».

Quando inizia la distopia? Sembrerebbe naturale pensare che essa sia un parto dell’utopia, la sua parte malvagia. Ma se esiste la sua controparte positiva è perché ciò che sta in mezzo, ciò che è reale, va decisamente male. Il punto di partenza della distopia, quindi, è il medesimo di quello dell’utopia: la situazione reale. In questo panorama di desolazione, la sola ancora di salvezza è rappresentata dall’ironia, l’unica in grado di «decostruire la catastrofe e quindi di rappresentarla dialetticamente».

Muzzioli, docente di Teoria della letteratura all’Università di Roma “La Sapienza”, impegnato sul fronte della ricerca sulla Letteratura, ma ancor più su quello del riesame critico del Novecento letterario italiano, suddivide la sua ultima opera in due parti: nella prima si propone di definire, in modo tecnico ma assimilabile, la distopia, come si presenta, da chi e in che modo sia stata “utilizzata” e quali ne siano stati gli effetti; nella seconda, effettua invece un’analisi approfondita di alcuni testi “tipicamente distopici” del periodo recente, e questo «non soltanto per il fatto che – spiega – le distopie classiche (Huxley, Orwell e compagni) sono state già abbondantemente studiate da altri. [Ma anche perché] Gli ultimi trent’anni sono il periodo in cui nasce il mondo in cui viviamo» che, ci sembra, proponga alla distopia fin troppi argomenti… Ma andiamo per ordine.

 

I narratori “distopici”

Nella prima parte del volume ci addentriamo nei meandri della distopia, impariamo a conoscerla e a riconoscerla, in base a delle “caratteristiche strutturali” abbastanza fisse e ricorrenti: la figura di un ribelle o di un sopravvissuto che entri in contrasto con l’universo distopico mettendone in luce le aberrazioni; la descrizione di un’ambientazione cupa e pessimista, (una descrizione che risulta essere, però, intrinsecamente ottimista, altrimenti verrebbero meno l’utilità e il senso della narrazione); un dialogo necessariamente asimmetrico, preferibilmente diaristico, che non presupponga altro interlocutore (e destinatario) al di fuori di colui che scrive. La scrittura stessa diventa difficile, complicata. Il narratore distopico è quasi sempre inibito in questa forma di espressione.

Non per nulla, il manifesto della distopia è 1984 di George Orwell. Insieme a lui, altri famosissimi capisaldi della letteratura si sono dedicati, consapevolmente o meno, al “fenomeno distopico”: Jonathan Swift, il marchese de Sade, Edgar Allan Poe, Herbert George Wells, Mary Shelley, Guy de Maupassant, Franz Kafka. I temi ricorrenti sono quelli dell’isola, del controllo capillare di un “Grande Fratello”, quello dell’ “ultimo uomo” e della fine del mondo. Ma la distopia più classica si incentra sul fenomeno del totalitarismo, e Muzzioli la spiega così: «i caratteri che ci apprestiamo a incontrare sono: la presenza onnipervadente del leader carismatico (figura diabolica, l’opposto del legislatore utopistico); lo Stato di polizia e il controllo completo (fin dentro i pensieri); l’omogeneizzazione della massa e l’induzione del consenso con pratiche di “trance” collettiva; la repressione capillare, individuo per individuo, non esulando dall’uso della tortura». Abbiamo quindi Josef K., il protagonista kafkiano di Der Prozeß (Il Processo, 1925) vittima del “mostro” burocratico tanto da restarne ucciso davvero.

A Corrado Alvaro si riconosce, in L’uomo è forte (1938), la straordinaria capacità descrittiva di una società del sospetto e del controllo; e a Ray Bradbury, con il suo Farhenheit 451 (1953), l’aver messo in luce il potere e l’importanza della cultura ideando un mondo in cui vengono bruciati tutti i temibili libri: «non ho detto i libri pericolosi, perché qualunque libro è divenuto illegale e viene bruciato da implacabili pompieri, che al posto delle pompe sono muniti di potenti lanciafiamme». Ed è proprio un “fireman” che, conosciuta una “strana” ragazza, inizia a difendere il mondo della cultura, proteggendo i libri a costo della sua incolumità. A tal proposito sono le donne ad avere un ruolo preponderante nell’ambito della scena distopica sia nel ruolo di autrici che in quello di protagoniste. Spesso, infatti, è una donna l’elemento di “scissione”, che porta il protagonista, integrato nella realtà dell’abuso, alla ribellione. Dal punto di vista tematico ricorre, invece, l’idea della sterilità femminile (e quindi automaticamente della fine dell’umanità).

La Seconda metà del Novecento, traumatizzata dal Secondo conflitto mondiale, teme ora l’incubo della bomba atomica. Ma la distruttività della guerra tecnologica era già presente nelle distopie di vari autori: insieme ai già citati Orwell e Bradbury anche Aldous Huxley. E proprio quest’ultimo batte tutti sul tempo col primo testo sul “dopobomba”: Ape and Essence (La scimmia e l’essenza, 1948), che prevede per il 2108 il disastro di una Terza guerra mondiale.

Con la fine del secolo, invece, tendono a prevalere le distopie che riguardano la rivalsa della natura sull’uomo: glaciazioni, inondazioni, bombardamenti di asteroidi; James Graham Ballard sperimenterà, in una tetralogia, tutte le possibili manifestazioni dei disastri naturali. C’è poi un territorio di confine tra realismo e distopia che racchiude diverse “scritture della catastrofe” parlando di olocausti, deportazioni, stragi, stupri, torture. Fra gli autori troviamo Primo Levi e un intero filone d’ambientazione nazista che dimostra come il Nazismo sia stato il periodo peggiore che l’umanità abbia vissuto. Ricorre, ad esempio, il tema della vittoria di Hitler e del profilarsi di un’imperitura dittatura nazista. Alla base di questo filone troviamo il libro di Katharine Burdekin Swastika Night (La notte della svastica, 1937): «la prerogativa di questo testo è che è stato scritto in anni in cui il nazismo poteva realmente vincere. Perciò la sua prospettiva disastrosa, che non solo abbia vinto la guerra ma abbia dominato il mondo per settecento anni e passa […] è una distopia coi fiocchi».

 

Analisi testuale

La seconda parte del volume ci trasporta perfettamente all’interno di alcuni testi “tipicamente distopici”. La scelta di Muzzioli non è casuale.

Si comincia con Grimus, di Salman Rushdie (1975) «è il primo romanzo di Rushdie […] è anche il testo più versato verso l’irreale […]. L’ambiente in cui si svolge la storia è Calf Island, dunque ancora una volta un’isola, luogo quant’altri mai pronubo all’utopia. E infatti si tratta di un’isola misteriosa, riservata agli immortali».

Poi Apocalipsis de Solentiname (Apocalisse di Solentiname, 1977) di Julio Cortázar: «del resto, cosa c’è di più distopico del racconto di un’apocalisse? […] Si presenta, a tutta prima, come un testo autobiografico: il suo tema è il viaggio compiuto dall’autore in America Centrale e in particolare la sua visita nell’arcipelago di Solentiname […] avvenuta nel 1976, poco tempo prima che sull’isola imperversasse la violenza delle milizie del dittatore Somoza».

Il pianeta irritabile di Paolo Volponi (1978): «Il testo ci racconta di una Terra sconvolta da una serie di guerre e di catastrofi che l’hanno trasformata in una sorta di “pianeta Inverno”».

Con Galápagos di Kurt Vonnegut (1985) siamo in «una crisi economica diffusa non solo tra i paesi per antonomasia poveri […] e questo intensifica le tensioni e lo stato di guerra, che sfocerà, nel punto culminante del racconto, nell’attacco dell’aviazione peruviana all’Ecuador […] Su questo panorama, già sufficientemente disastroso, la ciliegina sulla torta sarà un virus portatore di sterilità, che decreterà la fine dell’umanità sulla terra». Solo un gruppo di sopravvissuti, rifugiatisi sulle isole Galápagos, daranno il via ad una nuova umanità, alla neo-animalizzazione dell’uomo, all’uomo galapagense.

In Die Rättin (La Ratta, 1986) di Günter Grass «un’autentica pantegana […] sarà lei la portatrice di distopia che, lungo tutto il libro, intavola un fitto dialogo con l’autore-narratore, soprattutto attraverso la nebulosità del sogno, in cui si rappresenta il futuro e si preannuncia l’estinzione degli uomini».

In Ensaio sobre a Cegueira (Cecità, 1995) di José Saramago «si narra l’improvviso apparire di una malattia degli occhi fulminante e contagiosa. Per gli esperti le cause sono ignote e i rimedi mancano. […] Senonché, al di là di tutti i tentativi di contenimento, l’epidemia dilaga […] Infine, tanto di botto com’era venuta, la malattia scompare».

Si prosegue con En attendant le vote des bêtes sauvages (Aspettando il voto delle bestie selvagge, 1998) di Ahmadou Kourouma : « “La notte dura a lungo ma il giorno prima o poi arriva […] il racconto riguarda la più longeva dittatura della storia dell’Africa: addirittura, il vero dittatore sopravviverà all’autore stesso».

E concludiamo con Oryx and Crake (L’ultimo degli uomini, 2003) di Margaret Atwood: «Il suo punto focale è l’ “ora zero” che vede in scena l’unico superstite, “l’ultimo degli uomini” […] le distopie ci son tutte, o quasi: totalitarismo, imbarbarimento, contagio e complotto».

L’approfondita analisi tecnica, e tuttavia intelligibile, fatta dall’autore ha lo scopo di portarci «oltre la considerazione del mero contenuto [del testo che leggiamo, Ndr] che ormai sembra diventata l’unica possibile nei confronti del prodotto letterario, e in particolar modo presso i giovani».

Un’opera, quindi, per autentici appassionati o curiosi del genere.

 

Valentina Pagano

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 5, gennaio 2008)

Redazione:
Mariangela Monaco
Collaboratori di redazione:
Alessandro Crupi, Valentina Pagano, Giusy Patera, Roberta Santoro, Andrea Vulpitta
Curatori di rubrica:
Monica Baldini, Rita Felerico, Daniela Graziotti, Luisa Grieco e Mariangela Rotili, Mariangela Monaco, Valentina Pagano, Giusy Patera
Autori:
Monica Baldini, Martina Chessari, Alessandro Crupi, Felicina Di Bella, Rita Felerico, Clementina Gatto, Daniela Graziotti, Luigi Innocente, Luisa Grieco e Mariangela Rotili, Ennio Masneri, Mariangela Monaco, Alessandra Morelli, Valentina Pagano, Giusy Patera, Luciano Petullà, Roberta Santoro, Alessandro Tacconi, Silvia Tropea, Andrea Vulpitta
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