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Direttore editoriale: Lidia Palmieri
Anno VI, n. 60, agosto 2012
Il dolore sordo, opprimente
che annienta il desiderio
di vivere e lascia soltanto
un senso di frustrazione
di Maria Saporito
Da Città del sole un breve ma intenso
romanzo sul dolore e sul mal di vivere
Cosa può fare il dolore? Quale processo può azionare in un’esistenza apparentemente tranquilla? Di testi che hanno scandagliato l’animo umano, esplorandone gli abissi della sofferenza inconsolabile, ne è piena la letteratura. Ma non esiste limite o criterio alcuno che possa stabilire quando una storia meriti di essere raccontata e quando no. Esiste semmai la possibilità di tramandarla in modo diverso, scarnificandola fino a raggiungerne l’emozione originaria. E in questo processo a ritroso, capita spesso di imbattersi in un dolore capace di spalancare una voragine ineluttabile, alla cui presenza ci si può solo rassegnare. Ci sono libri che sembrano scritti da donne e uomini che hanno sofferto troppo; pagine che eternano ricordi devastanti e insopportabili. Storie che raccontano di separazioni, sottrazioni, perdite irrimediabili come Il crollo di Tranquilla Stradolini (Città del sole edizioni, pp. 96, € 10,00).
Una crisi inarrestabile
L’autrice, al suo esordio letterario, affronta uno dei temi più delicati possibili: la crisi di una donna intrappolata in una vita che non vuole più. La protagonista de Il crollo è un medico senza vocazione, che trascina i suoi giorni segnati da un perenne senso di inadeguatezza: «Mi sento come se fossi l’ultimo tassello di un puzzle che non si incastra». Intorno a lei si muove un mondo a cui non sente più di appartenere, fatto di equilibri precari, prossimi al collasso. Una ragnatela di rapporti compromessi, come quello con il marito, di cui la protagonista arriva a desiderare la morte: «Mio marito lo vorrei morto. Lo voglio morto. Deve morire», dice in un parossismo di frustrazione inarrestabile. La vita di Anna Avorio è una guerra costante, da combattere fuori e dentro di sé. La scrittrice la celebra accostandola a quella che dal 2001 si consuma in Afghanistan e riportando stralci di cronache belliche che scandiscono le stazioni della Via crucis di Anna. Ne viene fuori un racconto svelto e ritmato, in cui l’economia delle parole non fa rima con quella delle emozioni che la Stradolini riesce a consegnarci.
Ciò che resta di una vita
Nello spazio limitato delle novantasei pagine che compongono il romanzo, l’autrice – che è anche una naturopata e una pittrice – ha saputo disegnare, con precisione quasi chirurgica, il mondo della protagonista, delineandone i tratti di un cedimento esistenziale. Tra un passato segnato dalla figura ingombrante della madre e un presente perennemente tormentato (a cui concede sollievo solo la delicata figura del fratello artista), Anna si muove come un funambolo in procinto di cadere. Niente in lei è stabile, niente appare strutturato fuorché la coscienza di uno stato “limbico” in cui annacquare dolori e disillusioni. «Mi hanno fatto credere che non c’è una via di mezzo tra la vita e la morte e invece spesso mi è capitato di fare i conti con ciò che resta di una vita». Ma cosa può condurre a un abisso così profondo? Cosa può lacerare a tal punto l’animo umano da renderlo un deserto irrecuperabile? La scrittrice ce lo rivela solo nella parte conclusiva del romanzo, quando rivolge l’obiettivo su un dramma familiare impossibile da accettare. «Il ricordo della disperazione mi fa lacrimare gli occhi – spiega Anna – ma ormai la disperazione è come un fossile ben conservato in un’ambra». Uno stato che non sembra concedere speranza alcuna, fuorché quella della vendetta concepita come forma di estremo stordimento e di ingannevole liberazione.
La necessità di un colpevole
Una storia così “nera” non può ammettere certo un lieto fine, ma solo la consapevolezza di ciò che è accaduto e che può ancora accadere. Nel “crollo” inarrestabile della protagonista non c’è spazio per la riconciliazione con sé o con gli altri, ma solo per il montante «risentimento per tutto ciò che mi circonda e per me stessa che non riesco a morire fino in fondo né a vivere». Una trappola esistenziale spietata, che conduce Anna alla conclusione più penosa: «Per elaborare questo dolore, il più estremo che la vita può riservare a una persona, l’ho strumentalizzato cinicamente come pretesto di un crollo avvenuto molto tempo prima che ciò accadesse, indipendentemente da ciò che è accaduto». Un’ammissione amara e catartica, che consente alla protagonista di individuare – con rinnovata lucidità – l’origine di un buio che non l’abbandonerà mai: «La nostra guerra è stata una inutile crociata, una affannosa ricerca di responsabilità perché alla fine non si può sopravvivere senza cercare un colpevole neanche quando è il destino l’unico indiziato».
Maria Saporito
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 60, agosto 2012)
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