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Letteratura contemporanea (a cura di Francesco Mattia Arcuri) . Anno VI, n. 59, luglio 2012

Zoom immagine Alla riscoperta
della bellezza
di un territorio

di Marina Savoia
Da inEdition un romanzo
come una galleria d’arte
con immagini sul Settecento


In periodo di festeggiamenti per l’unità nazionale, ma soprattutto di ricerca di identità, che proprio i 150 anni trascorsi dal 1861 hanno maggiormente stimolato, acquisisce indubbio valore il testo di Francesco Cento, Né sole, né luna. Quadri (narrati) del Settecento calabrese (inEdition, pp. 238, € 16,00).

L’opera di Cento tenta, infatti, di addentrarsi in quel meandro di problematiche che attanagliano il Sud, ma che sempre più difficilmente trovano una spiegazione. Le questioni sono innegabilmente evidenti, ma le cause lo sono molto meno, anche in virtù della complessità (culturale, storica e sociale) di un territorio trattato invece spesso con eccessiva superficialità. Proprio per questo motivo, nel testo l’indagine viene retrodatata rispetto alla precedente opera dello stesso Cento: in Litàlia le vicende trovavano la loro ambientazione nell’epoca garibaldina; questa volta si compie un salto indietro di circa un secolo per giungere alla fine del Settecento.

Francesco Cento vuole così ribellarsi all’idea che le qualità della terra di Calabria possano essere dimenticate quasi non fossero mai esistite, e vuole ricordarle nel suo libro, così come evidenziato anche da Marina Savoia nella sua Prefazione.

 

La redazione

 

Prefazione

«Né sole, né luna» dice il verso di una canzone popolare: come a dire? Niente e nessuno? Né vincitori né vinti? A cosa dobbiamo la scelta di un titolo dolce come un canto d’amore, ma anche così netto, quasi definitivo e chiuso alla speranza?

«Il sole – cito dal penultimo capitolo – stentava a farsi largo nel fumo denso che ancora serpeggiava e la luna, non ancora scomparsa, si scorgeva appena in quella desolazione»: siamo alla fine del 1799 e nella bella terra di Calabria stanno andando a fuoco castagni, ulivi, gelsi, case e capanne. Cosa spinge la gente a dare fuoco a tutto, ad azzerare, a cancellare, a fare tabula rasa della propria terra? La disperazione? La rassegnazione?

Francesco Cento non ci sta e vuole capire e ricordare: la bellezza e la grandezza della Calabria sono state saccheggiate, negate e vilipese e il fumo dell’incendio, di quello come di altri incendi, ha oscurato il sole e la luna, ma la storia non va dimenticata, va riletta anche sotto la cenere e conservata. Perché, sembra dire l’autore, dimenticare o ignorare ciò che è stato, privarsi della memoria in cui riposa il senso del proprio passato e la coscienza del proprio presente, questo sì, toglie ogni speranza e ogni possibilità di riscatto.

La Calabria è un po’ come la Carbonara, un luogo che fu ricco e produttivo, annoverato da chi vuole sfruttarlo, ma ormai irriconoscibile e quindi introvabile: quando nel capitolo Terre perdute i funzionari da Napoli vanno in ricognizione per calcolare quanto se ne può guadagnare, nessuno è in grado di mostrare loro il paese che cercano perché il bosco e le sterpaglie ne hanno inghiottito persino le rovine e pochi conservano il ricordo di ciò che ne è stato.

Ma «i nomi servono a segnare la memoria...» ed ecco come nasce questo nuovo libro di Cento, come un tributo alla memoria di una terra che persino chi la abita sembra voler dimenticare. Nasce dalla voglia di ricostruire ciò che avvenne in Calabria negli anni della Rivoluzione francese e di far rivivere lo spirito e il clima culturale e sociale della gente di allora. Gli episodi narrati fanno riferimento precisamente agli anni fra il 1783 e il 1799, con una puntata nel 1812, al teatro San Carlo di Napoli; la narrazione si chiude infatti con un finale d’opera che in qualche modo riassume e porta a compimento le vicende del libro. Di ciò che avvenne, prima dell’incendio che offuscò il sole e la luna, sembra dire, non restano che gli echi di un’opera in musica: sulla Calabria Ulteriore e sulla Sila, la selva incantata che fu officina della conoscenza, è calato, per ora, il sipario.

Diviso in capitoli difformi per carattere e sviluppo, con episodi diversi che a volte restano isolati ed emblematici, a volte ritornano e si collegano fra loro, il libro ci fa entrare in una sorta di galleria di quadri. Non a caso il sottotitolo recita «quadri narrati del Settecento calabrese»: la lettura procede per scene, con salti temporali e cambiamenti del punto di osservazione e del campo visivo e ci induce a sfilare davanti a una serie di immagini come se ci trovassimo nella grande sala di un palazzo nobiliare adibita a museo.

Fra stucchi e affreschi, cogliamo uno dopo l’altro personaggi e accadimenti, luoghi e caratteri di un’epoca e pezzo a pezzo ricomponiamo una storia che ha radici lontane e un denominatore comune. Vediamo, sotto gli stemmi della famiglia Grimaldi, grandi ritratti di nobili che furono feudatari nelle terre calabre, un principe fra gli altri, dal volto cupo, e un frate a lui molto somigliante; poi un giovane dall’aria ribelle, di cui leggiamo, sulla targa d’ottone: «morto nel 1799 durante la Rivoluzione napoletana»; tele di più modeste dimensioni ritraggono alcuni notabili e i “Magnifici”. Incontriamo poi un quadretto tenero con due bimbetti e una balia che li allatta, una scena di pesca titolata «la cattura del cavaliere» e la raffigurazione minuziosa di una bottega di falegname e mastro liutaio.

Ci soffermiamo sulle scene corali di una povera umanità sconvolta da una catastrofe naturale che sembra il Giudizio Universale, di una folla in processione per la Passione di Cristo, di un popolo in rivolta davanti alle porte di un castello. Ci cattura il realismo di un mare in tempesta col profilo di una barca seminascosta dalle onde che vaghe figure dalla riva sembrano invocare e dei boschi in fiamme visti attraverso la finestra di un palazzo principesco. Ci incuriosisce la scena di un processo con imputati, accusatori e giudici, ci fa sorridere il quadro della serenata notturna con lira, chitarre e zampogna e ci affascina un ritratto muliebre, dolce e melanconico, che porta il nome «Elisabetta».

Percorrendo la sala incontriamo anche una incisione che ritrae edifici in rovina e dei disegni a carboncino, quasi appunti per cogliere en plein air i luoghi da documentare.

Sulla parete in fondo alla sala, domina un arazzo di soggetto mitologico in un contesto silvano di rara bellezza. Infine, al centro della sala, dentro una teca, sono in mostra due oggetti molto diversi, apparentemente estranei l’uno all’altro: uno è una locandina del Teatro Regio San Carlo che data 13 dicembre 1812, l’altra, ben più preziosa e antica, è una pergamena, vecchia di molti secoli, che porta i segni delle mani esperte che conciarono la pelle perché altre mani diversamente esperte vi lasciassero sopra i segni della sapienza, meravigliosa sintesi e punto di incontro fra la cultura materiale e il sapere intellettuale.

Ed è qui, al centro della galleria di quadri e nel cuore del libro, che noi visitatori-lettori possiamo trovare il denominatore comune delle storie narrate e ricomporre l’insieme. Alla fine, con l’ultimo capitolo, ci troviamo avvolti da una musica, piuttosto che di fronte a un quadro. A sipario calato, prima è il silenzio, poi un lungo applauso accompagna e suggella un percorso emotivo di nostalgia per ciò che è stato vissuto e che può rivivere ormai solo nelle note di un melodramma.

Nel costruire la sua galleria di quadri narrati, Francesco Cento ha attinto a piene mani dai documenti sparpagliati nei musei di mezza Europa, ha curiosato nelle biblioteche spinto dalla passione del ricercatore e del bibliofilo.

La sua prolifica fantasia creativa, come lui stesso dice nelle note introduttive, è dunque sicuramente debitrice nei confronti della Storia: veri sono i rapporti fra le famiglie genovesi dei Grimaldi e la Calabria, storicamente fondati sono i riferimenti alla Repubblica Partenopea, ci fu realmente un terremoto nel 1783 e il 13 dicembre 1812 fu veramente rappresentata al San Carlo di Napoli un’opera, composta non a caso da un musicista calabrese.

Va detto tuttavia che anche la Storia può essere grata all’autore di questo libro per il suo contributo di verità: se i nomi e i toponimi sono per lo più inventati e i fatti narrati sono giocati in piena libertà, l’aderenza allo spirito del tempo e del luogo, il rispetto profondo per la gente che fece la storia della Calabria Ulteriore, la partecipazione commossa al lavoro che vi produsse ricchezza e cultura rendono il libro una fonte preziosa, un contributo competente e intellettualmente onesto alla storia di una terra bella e maltrattata, orgogliosa e rassegnata che può ritrovare anche con la memoria del passato la propria dignità e la propria bellezza, che può far risplendere ancora il suo sole e la sua luna.

 

Marina Savoia

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 59, luglio 2012)

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