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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Il racconto
di un segreto
amato e celato
di Giovanna Bruco
Massimo Gramellini racconta
il dramma della scomparsa
della madre. Edito Longanesi
Se per alcuni il racconto di un proprio dolore può essere ridotto a un format, così non è se nella metafora letteraria si coglie il senso più nascosto che essa esprime. Un percorso commovente può anche far ridere. E così è in questa narrazione, dove l’episodio della sassata al padre diviene esilarante risoluzione moderna del conflitto edipico per come va a colpire nel segno la testa di Sofocle e di tragici affini che non conobbero l’amore per il padre: «Sentivo un bisogno disperato di commuovermi con lui», come rifiuto affettivo in grado di darne una compassionevole descrizione: «Mi tenne un discorso molto razionale che durò due semafori rossi… eravamo sistemati male tutti e due, ma dei due chi stava messo peggio ero io, perché una moglie si può sostituire ma una mamma no. Scese dalla macchina e non ne parlammo più».
In Fai bei sogni (Longanesi, pp. 216, € 14,90), ultimo lavoro di Massimo Gramellini, pur trovandoci difronte a una storia drammatica, personale, per troppo tempo messa da parte dallo stesso autore, il dolore lascia il posto al racconto di una resistenza che ha portato alla riuscita.
Dunque più che sul dolore questo è un libro incentrato sulle soluzioni per superarlo: «La mia passione per le vite degli altri è sempre dipesa dal desiderio inconsapevole di scoprire come fossero riusciti a sopravvivere al primo impatto col dolore» attraverso il rapporto di amicizia: «Avevo conosciuto la ragazza che sarebbe diventata mia madre. E la potenza dell’amicizia. Mamma e Madrina erano state più che sorelle. Non si erano capitate ma scelte», anche se difficile da sostenere nelle dinamiche delle inevitabili separazioni tra uomo e donna: «Le lacrime scendevano lentamente, come da un rubinetto chiuso male» sempre diverse: «Il nostro amore era stato un ponte più che un approdo: ci eravamo congedati senza scenate, con un senso reciproco di gratitudine e di prostrazione».
L’autore racconta come in questi frangenti non possa aiutarci lo spiritualismo astratto attraverso il quale si crede di poter sciogliere i nodi del non cosciente con consigli sul comportamento: «Conquistate il dominio del vostro io, stringendo abilmente le redini di quel cavallo ribelle chiamato mente. E correte, correte…» dai quali conviene lasciarsi disarcionare: «affiorava il mio senso dell’umorismo, una vocina petulante che mi impediva di prenderli troppo sul serio», e men che meno possono i discorsi aridi degli intellettuali che tendono la trappola: «Un giornalista televisivo molto famoso espresse al telefono la sua delusione per la mia scelta sentimentale: da un fustigatore di costumi come me si sarebbe aspettato meno miele e più peperoncino. Mi confidò di essere in partenza per un safari con un branco di banchieri. Augurai ai leoni buon appetito».
Con una ironia mai frutto della disperazione l’autore sa sganciarsi dai falsi miti: «Era una seduta di autocoscienza ad alta quota, sotto il tiro dei cannoni: stavo esplorando l’ultima frontiera della psicanalisi» e ci trascina con leggerezza nelle sue pseudologie di ragazzino, quando attendeva l’applauso leggiadro di una donna riconoscibile solo dai capelli biondi: «Con le mie radiocronache a voce alta intrattenevo i muri del salotto, sbatacchiandovi contro un fazzoletto blu a pois bianchi appartenuto alla mamma», «Mi sentivo felice come un deficiente».
Sani incubi dell’infanzia erano causati da una figura antica oggi sospetta di fantasticheria come quella di Polifemo, così lontana dalle immagini delle sirene inventate da Omero come trasformazione fantasiosa delle prostitute che adescavano i marinai nei porti, e che fa pensare piuttosto a un rapporto cannibalico madre-bambino: «ero rimasto sconvolto dal Ciclope Polifemo che sbatteva i compagni di Ulisse contro le pareti della caverna e se li infilava in bocca come ovetti freschi […]. Mi svegliavo nel cuore della notte con la sensazione spiacevole di essere un ovetto concupito dall'occhio singolo di Polifemo. Dopo un breve duello contro il buio, mi dichiaravo sconfitto e andavo a rifugiarmi nel letto dei miei» che lo costrinse, dopo la perdita della madre, ad allearsi forzatamente con Belfagor: «un demone sovrappeso mi incatenava alla terra. Un mostro molle e spugnoso che alimentava le mie paure: sfiducia, rifiuto, abbandono. Lo battezzai Belfagor, il fantasma del Louvre di un telefilm che aveva conteso a Polifemo il primato delle mie aggressioni infantili», ma solo come stampella temporanea: «Chi è stato abbandonato si considera assaggiato e sputato come una caramella cattiva. Colpevole di qualcosa d'indefinito […] Non avevo saputo trattenerla [...] Eppure sentivo che sarebbe ricomparsa», perché alla fine Belfagor “sparisce” con la ricomparsa interna della scomparsa: «Le avrei spiegato che i colpi di scena non erano ancora finiti e che il prossimo sarebbe stato la ricomparsa della Scomparsa.[...] Certe domande mi facevano paura. O forse mi spaventavano di più le risposte».
Risposte che ci tengono in sospeso fino alla fine quando è Madrina, che fu cara alla mamma come una sorella, a farle arrivare alla coscienza: «"Madrina, perché non me l’hai detto prima?" - "Pensavo che lo sapessi e non ne volessi parlare"» quando noi eravamo rimasti alle prime pagine: «Non è andata proprio così…caro il mio ragazzo […] dopo quarant'anni sarebbe ora che qualcuno ti dicesse la verità».
Ed è certo stata questa prima certezza corporea della possibilità di vita come rapporto: «Allo stadio la mamma pretese almeno un posto a sedere: da qualche mese custodiva un ultrà dentro la pancia […] uno zero a zero sotto la pioggia. Ma io nel mio palco riscaldato ero ancora al sicuro», che ha avuto il potere di far ricreare all’autore, nella linea della scrittura, quell’immagine interna che ha saputo difendersi dalle cattiverie di chi aveva perso il sentire degli affetti in un corpo scisso dalla mente, come nel libro è quello di Padre Teschio: «"Tu non mi vuoi bene" - Infatti non gliene volevo. Mi sentivo l’eroe all’incontrario dell’unico romanzo che Dickens non ebbe mai il cuore di scrivere: la storia di un bambino a cui tolgono senza motivo le donne della sua vita per costringerlo a crescere con una tata arida e un prete manesco».
Una narrazione sincera come le emozioni dell’autore bambino
Gramellini ci racconta bene più volte di come il pensiero dello scrittore arrivi alla mano prima ancora che nella testa, guidato dagli affetti che scombussolano la pancia: «Sentii un cucchiaio di ghiaccio penetrarmi nella pancia e svuotarmela tutta», così come parla del linguaggio silenzioso dei sogni che somiglia a quello degli artisti: «la fantasia del cadavere volante aveva preso forma inconsapevole sulla tastiera del computer come se l’avessi estratta da un sogno».
La creatività che consente a noi umani lo sviluppo di quella fantasia che gli animali non hanno: «poiché la realtà si era rivelata una tiranna sanguinaria, chiesi aiuto alla fantasia», in Gramellini la riscontriamo nel ritmo serrato di una scrittura che rimbalza senza soffermarsi, che narra senza troppo descrivere: «"Per caso hai visto la mamma? Non la trovo più" - "Ma cosa dici? È in cucina" - "Sei sicuro? Guarda che non c'è" [...] avevo trovato soltanto uno scatolone sotto la scrivania. Allora avevo cominciato a piangere e la mamma era sbucata dallo scatolone ad abbracciarmi. "Ti abbiamo fatto uno scherzo!" Mi ero arrabbiato tantissimo. I bambini sono persone serie, detestano gli scherzi stupidi. Sanno che prima o poi si avverano», disegnata da una ricerca tutta interna: «dentro di me il disagio per la condizione di orfano si mescolava al terrore che fosse ineluttabile e nutriva il demone dell'aggressività», protesa verso quella certezza – caparbia - di essere nati per la vita e per il rapporto nonostante le incomprensioni negli affetti più cari: «Mentre trotterellavo caparbio verso la palla lanciatami da mio padre avevo rischiato di calpestare una margherita e mi ero chinato a raccoglierla per farne dono alla mamma. Lei si era commossa, lui aveva dubitato della mia virilità. […] Il racconto dell'episodio mi perseguitò per decenni come una facile profezia: "D'altronde, quand'era piccolo si chinava a raccogliere le margherite..."».
Certezza come presenza di un pensiero che sa rendere i fatti, anche quelli più drammatici, sospesi su un alone di verità diversa da quella sofferta: «Non sopportavo le facce di circostanza, le carezze stupide di chi mi compativa», tanto da farcela sembrare una bugia rispetto al sogno; che non si spegne neanche quando ci è scoppiato tra le mani assieme a un palloncino che avevamo destinato a un bambino a cui salvare la vita. Perché quello che era stato: «un bimbo instupidito dal dolore che continuava a negare la morte della madre» ha saputo aspettare il modificarsi degli eventi senza distogliersi da una meta misteriosa da raggiungere, senza mai perdere lo stupore di quando era piccolo e se ne stava acquattato: «rintanato sotto le coperte, gli occhi accesi e la testa vorticante come una giostra incantata» per proteggere una speranza sconosciuta.
La messa a fuoco del nemico vero
È per noi evidente che quello che ha sostenuto l’autore – e che nel libro è ribadito anche da un medico generico, che ha studiato psicologia nel tempo libero, da cui suo padre lo manda dopo la sassata – «il carattere si forma nei primi tre anni di vita. Rimanere orfani a nove non produce scompensi indelebili anche se enfatizza certe propensioni» è la “memoria-fantasia” dell’immagine femminile dai capelli biondi e il profumo buono che era stato il suo primo oggetto d’amore; un’immagine interna che al padre era forse mancata: «Non ho capito niente di te. Però, si, ti ho voluto bene. Sulla fiducia».
Diversamente dagli intellettuali che trovano facilmente all’esterno il nemico da combattere, pur senza perdere di vista il nemico: «A Sarajevo gli spazzini lavoravano più in fretta della guerra», Gramellini sta attento a non confonderlo con quello che potrebbe essere rimasto dentro di noi dall’infanzia: «Salii a bordo del sottomarino con un bisogno disperato di dichiarare guerra al mondo intero. Ma non riuscivo più a trovare i nemici. Erano tutti dentro di me». Nemico che nel suo caso potrebbe far pensare allo spauracchio di un padre troppo razionale: «Per colmare l’abisso di una madre che muore bisogna essere dei maschi femmina» e senza fantasia: «Un maschio femmina avrebbe cercato una Tata in grado di riscaldarmi soprattutto il cuore» che senza rendersi conto contrastava la bella memoria dei profumati capelli biondi: «Di che colore sarebbero stati adesso i suoi capelli biondi, di cui la memoria aveva smarrito il profumo?». Una memoria che gli sarà indispensabile da adulto quando dovrà rapportarsi alla realtà senza confondersi: «credo di aver imparato allora i rudimenti di quello che sarebbe stato il mio mestiere. Prendere nota e riferire. Consapevole che di ogni fatto esistono almeno due versioni».
Già in L’ultima riga delle favole, l'autore si era chiesto in che modo la nostra vita di ogni giorno sia trasformabile dai sogni, se esista l'anima gemella, e quale sia il senso del dolore. In questo libro le stesse domande sembrano condensarsi nell’augurio materno:«fai bei sogni piccolino», dove l’intuizione femminile, che nella conoscenza del pensiero non cosciente risieda la possibilità di evitamento e superamento del dolore, ripropone che la triade venga storicamente riesaminata: «E noi maschi non riusciamo a fare due cose insieme. Per questo abbiamo edificato una società che ci consente di farne una sola, lasciando il resto del carico alle nostre compagne».
La consapevolezza che l’immagine femminile interna sia indispensabile all’identità dell’uomo: «sopperire alla mancanza dell’energia femminile ritrovandola dentro di me», spinge l’autore a ricercarla attraverso la scrittura: «I nemici circondavano il sottomarino da ogni parte. Ma io resistevo ai loro assalti fino all'arrivo della mamma con la merenda. Quella fantasia mi trasmetteva un senso di sicurezza che in seguito avrei ritrovato soltanto nella scrittura», per ritrovare la propria nascita nella trasformazione di un passato che l’aveva minacciata: «Quell’adolescente bionda con le mani sporche di carta carbone continuava a mancarmi terribilmente. Ma in un modo diverso. Adesso mi mancava la possibilità di proteggerla»; nascita che il padre aveva forse perduto: «Mio padre mi annunciò l’aggravarsi della sua malattia con lo stesso tono burocratico che utilizzava per ricordarmi una bolletta scaduta».
Perché l’efficiente nonna Emma non doveva essere stata un biscottino: «Nonna Emma si era opposta al matrimonio dei miei con una raffica di bronci. Avrebbe voluto che papà sposasse una ragazza più danarosa [...] La piccola comunità si reggeva su un principio inconfutabile: tutto il potere a nonna Emma», e forse per questo suo figlio si era innamorato di una donna così diversa, mite e remissiva, pretendendo da suo padre, marito succube, il consenso alle nozze: «sarebbe ora che tu imparassi a portare i pantaloni in questa casa!»; una donna che, diventata moglie, aveva dovuto imparare a convivere con molte altre cose: «Lei era insensibile alle ossessioni del tifo, però aveva dovuto imparare a conviverci».
Quando l’autore fa raccontare a Madrina la vita difficile della ragazza che diventò sua madre: «Nonna Giulia aveva avuto tante disgrazie e troppi figli […] cinque orfani a stomaco vuoto che era toccato alla primogenita riempire», e che già a sedici anni faceva la dattilografa in fabbrica, non ci è difficile comprendere perché sia stata poi madre e sposa insostituibile: «Sbarcata in uno Stato ostile col marchio della clandestina, la mamma aveva attuato una forma di ribellione che consisteva nel rispondere alle angherie con gesti incondizionati d'amore. Non dava in cambio di qualcosa. Dava e basta».
E forse anche perché sappiamo che per amare a fondo una donna è necessario, come è accaduto all’autore, averne amate più di una: «Ti volevo dire che non mi manca una donna, mi manchi tu». In una relazione dove per essere amati ci si abitua a dare e basta il bisogno imprevisto di dover chiedere fa temere di diventare un impiccio, e non fa pensare a quanto i figli abbiano l’esigenza di un affetto che sia soprattutto presenza: «Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più».
L’augurio «Fai bei sogni piccolino» sconfigge la paura di vivere
A introduzione del romanzo Gramellini ha messo questa frase di Eric Hoffer: «Molto più importante di quello che sappiamo o non sappiamo è quello che non vogliamo sapere».
Tra i molteplici nessi culturali, impossibili da svolgere in questa sede, che il libro di Gramellini ci ha costretto tacitamente a fare, non possiamo sorvolare, in primis, su la “fantasia di sparizione” scoperta da Massimo Fagioli e il relativo concetto di trasformazione. Tanto che per concludere ci vien da dire che se anche fin da bambino Gramellini sapeva che sarebbe diventato uno scrittore: «il mondo che avevo dentro avrei dovuto cercarlo con le parole», a noi è venuto fatto di pensare che il capolavoro del suo pensiero sia condensato nel suo primo dipinto: La mamma mangia un grappolo d'uva, dove la fantasia irrazionale di un bambino seppe esprimere la necessità storica di offrire alle donne un grappolo d'uva gigante senza più acini marci da spremere nella gola a piene mani; un grappolo d’uva sana dove poter riconoscere il proprio volto anche in un solo acino disegnato da un bambino.
Poi, che lo si capisca o meno, l’augurio: «fai bei sogni, anzi fateli insieme perché insieme valgono di più» al quale si potrebbe aggiungere che in più siamo più valgono, è un pensiero metaforico che è saputo andare oltre l’interazione di due idee perché ha colto il punto d’origine: ovvero che all’origine il nostro pensiero è per immagini, che il sogno altro non è che il pensiero della notte che nasce anch’esso come immagine per trasformazione delle percezioni della veglia, e che per questo ad esso è legata ogni possibilità di trasformazione umana.
Riusciranno le parole non imparate con la ragione a inseguire con la letteratura una nuova antropologia?
Giovanna Bruco
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 59, luglio 2012)