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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VI, n. 59, luglio 2012

Zoom immagine La donna che amò
sia Cesare Battisti
che l’irredentismo

di Antonietta Zaccaro
Da Città del sole l’affascinante ritratto
di una giornalista fiera e appassionata


Sono appena terminati i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, durante i quali sono state ricordate figure maschili di politici, militari e intellettuali che hanno contribuito ad unire la nostra patria e a renderla una nazione. Insieme a tutti questi uomini, va ricordata anche una figura di donna, moglie e madre, che ha fatto della sua vita, attraverso l’impegno giornalistico, un baluardo di libertà e indipendenza sia etnica sia culturale: mi riferisco a Ernesta Bittanti Battisti, moglie di Cesare Battisti, martire dell’irredentismo, la quale ha dedicato la sua vita a mantenere viva la memoria del marito e portarne avanti gli ideali. A ripercorrere la vita di questa grande donna è Lina Anzalone, scrittrice reggina, che nel suo libro Ernesta Bittanti Battisti. L’ultima donna del Risorgimento italiano (Città del sole edizioni, pp. 368, € 15,00) descrive la personalità di una donna forte, «culturalmente impegnata, figura umana e morale di primo piano, sostenitrice di una educazione positivista e socialista» che non si lasciò mai abbattere dalle durissime prove che la vita le riservò, rimanendo sempre salda nei suoi ideali e devota alla causa italiana.

 

La carriera giornalistica

La prima passione della Bittanti fu la carta stampata. Infatti iniziò giovanissima a firmare numerosi articoli per varie testate giornalistiche locali: la svolta in questo campo arrivò nel 1900, quando, durante i lavori del Secondo congresso regionale del Partito socialista italiano in Trentino, si decise di affidare ai coniugi Battisti (all’epoca Ernesta aveva già sposato Cesare Battisti) la direzione del primo giornale socialista, Il Popolo, sul quale scriveranno sia lei sia il marito propugnando i loro ideali di indipendenza e di libertà. Il giornale incontrò da subito il favore della cittadinanza, ma non quello del governo austro-ungarico, che ricorse all’arma della censura e del sequestro per bloccarne la diffusione. Ma i coniugi Battisti «per anni, incuranti dei nemici che si procuravano, con i loro articoli densi di polemica pungente mettono a nudo le malversazioni degli amministratori comunali e ne ricevono in cambio denunce e processi». Ma condanne e difficoltà non li intimorirono, anzi diedero più vigore alla lotta da loro intrapresa, e i lettori de Il Popolo dovettero ben presto abituarsi alle colonne vuote occupate dalla scritta “sequestrato” che affollavano le pagine del giornale al posto degli articoli scritti da Cesare o da Ernesta. Molte volte, a causa degli impegni politici del marito che spesso lo portavano all’estero, Ernesta fu costretta a sostituirlo, nell’amministrazione come nella correzione delle bozze, e talvolta persino nella scrittura degli articoli, firmati sotto pseudonimo. Così perfetta era la simbiosi intellettuale fra i due, che i loro lettori non riuscivano a distinguere gli articoli scritti da Cesare da quelli scritti dalla moglie. Dopo la chiusura de Il Popolo, e anche dopo la tragica morte del marito, la Bittanti si dedicò alla divulgazione del suo pensiero e dei suoi scritti e collaborò con diverse testate giornalistiche nazionali e non, e, per il lavoro svolto in occasione del terremoto di Reggio Calabria e Messina del 1908, può essere definita la prima corrispondente donna della storia del giornalismo italiano.

 

Ernesta e le donne

Luogo privilegiato dalla Bittanti fu Vita trentina, supplemento gratuito del giornale del marito, fra le cui righe affrontava i temi a lei più cari, dalla politica alla letteratura all’arte, e nel quale offriva spazio alla lotta femminista. In un periodo storico in cui la donna fa difficoltà a emergere e a realizzarsi pienamente, Ernesta auspica una donna moderna, che sente il bisogno di conquistare spazi politici e sociali, in luoghi fino a quel momento proibiti. Ernesta affronta le tematiche del cambiamento, rimanendo, però, in una posizione moderata. Il filo conduttore che unisce tutti gli articoli dedicati all’emancipazione è «la convinzione che la mancanza di una adeguata cultura sociale fosse la responsabile della lentezza nell’evoluzione femminile». Proprio per questo, nel 1897 Ernesta fonda a Firenze “Lega per la tutela degli interessi femminili”, nella quale si assume l’impegno di presidente e segretaria, portando avanti la campagna di tutela del lavoro delle donne e dei loro diritti. Nel suo pensiero la maternità è vista come un punto di forza a discapito del predominante pensiero maschilista che vede in essa un pretesto per frenare lo sviluppo culturale al femminile. Grazie alle campagne femministe di Ernesta, sempre condotte senza eccessivi furori polemici, le donne iniziano ad entrare in ambiti lavorativi fino ad allora prettamente maschili. Elemento importante per l’emancipazione della donna italiana di inizio Novecento è l’accesso al diritto di voto; Ernesta, attraverso il suo giornale, cerca di allargare le adesioni, sensibilizzando così le donne «a voler acquisire piena cittadinanza e capacità decisionale con il voto». Ma si dovrà attendere fino al 1946 per l’introduzione del suffragio universale in Italia. Lo stile di vita della Bittanti è la migliore arma di propaganda femminista da lei sfoderata: non è la tipica donna salottiera di quegli anni, anzi «ha studiato, si è laureata, interviene a incontri, si interessa di politica, fa un lavoro che agli albori del secolo non è certo considerato da donna, come non è da donna guidare l’automobile».

 

La Bittanti e il Fascismo

I coniugi Battisti conoscevano personalmente Mussolini, in quanto aveva collaborato per un breve periodo con Il Popolo, ma Ernesta non si fidava affatto di lui; e dal canto suo, il futuro Duce, conoscendo la tenacia di lei e la sua capacità persuasiva, cercò in un primo momento di tirarla dalla sua parte. Ma Ernesta, fedele ai suoi ideali, non smise mai di considerare con disprezzo l’avanzata fascista, e fin dalla Marcia su Roma, in tempi non sospetti, denunciò il pericolo della dittatura e rimase sempre una forte oppositrice del regime. Durante il Ventennio si acuirono i contrasti tra Ernesta e la Chiesa cattolica: lei, di formazione socialista e fedele alla dottrina della libertà, vedeva nel clero, e nei legami fra chiesa e stato sorti dai Patti lateranensi, un ostacolo alla crescita politica e sociale del paese, ma il suo pensiero non la rendeva intollerante. Con il fascismo al potere si delinea il profilo di una chiesa divisa: da una parte chi accetta e favorisce il nuovo regime, dall’altra che si rifiuta di appoggiare un partito violento e razzista. Ma il Vaticano si mantiene comunque cauto nel giudicare il Duce e la sua politica: proprio per questo Ernesta definisce la sua posizione come di adattamento al nuovo regime. La sua indignazione trova il culmine quando padre Agostino Gemelli inizia la sua attività apologetica del fascismo e approva le leggi razziali del 1938, Ernesta scrive così nel suo diario riferendosi al prelato: «ciarlatano in scienza, in religione, in politica». Sull’onda della legislazione antiebraica, inizia a diffondersi anche in Italia la propaganda antisemita, che vede tra i suoi promotori più accaniti proprio padre Gemelli, impegnato ad orientare l’opinione pubblica verso atteggiamenti sempre più ostili nei confronti degli ebrei. Ernesta, legata da sempre ad amici ebrei, vive in prima persona il dramma che li colpisce, e che li spinge in ripetuti casi al suicidio: riesce ad aprire uno spiraglio nella diaspora ebraica durante il fascismo, quando, nel 1939, alla morte di Augusto Morpurgo, figlio del bibliotecario Salomone, suo amico, sfida le leggi razziali e pubblica un necrologio sul Corriere della Sera, suscitando forti polemiche ma ricevendo anche molti attestati di solidarietà. La situazione diventa pericolosa per la famiglia Battisti, tanto che Ernesta decide, nel 1943, di trasferirsi in Svizzera, da dove assiste alle conseguenze dell’armistizio dell’8 settembre. Ernesta recrimina sul mancato verificarsi dei cambiamenti che il popolo italiano si attendeva, constatando il disorientamento dei giovani in balìa di eventi che non presagivano nessuna evoluzione positiva per il nostro paese.

Dalle pagine di Lina Anzalone emerge dunque il ritratto di una donna fiera e consapevole della propria forza, che non ha paura di realizzare pienamente la propria femminilità e di esprimerla anche nel mondo del lavoro, in un ambiente, quello politico e giornalistico, dove le donne venivano quasi sempre guardate con disprezzo. Una figura simbolo della lotta per l’emancipazione femminile che ha portato anche le donne italiane a conseguire la parità dei diritti e delle opportunità rispetto agli uomini.

 

Antonietta Zaccaro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 59, luglio 2012)

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