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Anno VI, n. 58, giugno 2012
L’America Latina vissuta e
raccontata con spontaneità
da un medico italiano
di Guglielmo Colombero
La mongolfiera riedita le narrazioni
autobiografiche di Riccardo D’Elia
Riccardo D’Elia, nato a Cassano allo Ionio nel 1859, emigrò in Brasile, nel Rio Grande do Sul, non ancora trentenne, e si spense a Castelo, nell’Espirito Santo, all’età di 73 anni, dopo aver viaggiato a lungo in Argentina e in Paraguay. Medico di fama internazionale, autore di un Dizionario Medico Enciclopedico e di un Manuale pratico di Ostetricia e Pediatria, pubblicati entrambi a Rio de Janeiro negli anni ’20, ottenne prestigiosi riconoscimenti per questo suo Argentina, Paraguay e Brasile. Ricordi, impressioni e consigli (La mongolfiera, pp. 200, € 15,00), che vide la luce la prima volta nel 1906, stampato dalla Tipografia Torinese e inserito nella collana I quaderni dell’irfea, diretta da Carlo Rango. Scrive nella sua Prefazione Nùncia Santoro de Constantino, docente di Filosofia e di Scienze umane della Pontificia Università Cattolica di Rio Grande do Sul, che quando arrivò in quelle terre il dottor D’Elia «mangiò la carne cotta sul fuoco con gli spiedini di legno, carne che tagliava con un coltello da “gaucho”, sorseggiò il “chimarrão”, salì a cavallo per percorrere le enormi distanze disabitate dello Stato. Si stabilì nel villaggio di São Vicente, scarsamente popolato e molto distante da qualsiasi centro urbano importante, ubicato ad Ovest, nella regione delle antiche missioni gesuitiche spagnole». E il suo atteggiamento verso quelle comunità finì per racchiudere un inestimabile patrimonio di conoscenze: «Uomo colto della sua epoca, dimostrò grande sensibilità per le cose della natura e per il carattere degli uomini. Il suo modo di percepire e pensare quella terra sconosciuta e distante, s’inserisce nel dispositivo del suo tempo, nella concezione di Foucault, come un’unione di strategie di relazioni di forza che sostengono differenti tipi di sapere e sono da questi sostenute».
Rio de Janeiro, la Bisanzio dei Tropici
«Immaginate una città seduta sulle rive di una baia che misura 140 km di circonferenza, tutta cosparsa di seni, di golfi, d’isole verdeggianti e piena di moto pel continuo passaggio di grandi vapori transatlantici, di piroscafi, di scialuppe, di vaporini, d’imbarcazioni popolate di viaggiatori; un porto sicuro e ben riparato, posto sulla strada dei due mondi, servente di punto d’ancoraggio tanto ai bastimenti diretti alla Plata, quanto agli steamers recantisi in Australia e nella Nuova Zelanda, un luogo tropicale, avente di tratto in tratto colline e montagne fresche e pittoresche; un magazzino generale di commercio tutto brio e movimento, e assai progredito sulla via dell’incivilimento, benché a poche leghe dalle foreste vergini, riboccanti e molli, e snervato nel tempo stesso, smerciante il caffè a milioni di sacchi, e non di meno amante dell’arte, delle lettere e della politica al punto di rassomigliare talora a Bisanzio». Così D’Elia descrive la capitale del Brasile di fine Ottocento, all’indomani dell’abdicazione dell’ultimo imperatore, Pedro II di Braganza, e della proclamazione della repubblica da parte di un pugno di generali e di ammiragli ambiziosi e in lotta fra di loro.
Buenos Aires, città ispanica popolata di italiani
Approdato nella capitale argentina, D’Elia scrive che è impossibile descriverla, «perché ogni giorno sopporta una trasformazione rapida, e lo spirito di modernità con il quale furono tracciate quelle vie superbe e furono disposte quelle costruzioni maestose, non hanno nulla da invidiare alle parti più monumentali delle più celebrate città». Da Buenos Aires D’Elia si sposta a Cordoba, dove vive l’allucinante esperienza di essere aggredito da un paziente malato di idrofobia: «si levò allora in piedi, dimenando le braccia, squassando il grosso capo, ruggendo con un urlo che si spegneva in una specie di sogghigno, e, cosa strana e orribile, parve che cominciasse a danzare. Era una danza raccapricciante, un ritmico piegarsi e scattare delle ginocchia, un roteare del corpo, un piegarsi del busto, quasi volesse battere il capo in qualche ostacolo». All’epoca il presidente dell’Argentina era il generale Alejo Julio Roca, responsabile del genocidio degli indios Mapuche della Patagonia, grazie ai fucili a retrocarica Remington forniti dagli Usa.
Asuncion, le donne fumano il sigaro per le strade
Terza tappa del viaggio di D’Elia è il Paraguay, e nello specifico Asuncion. Ecco come D’Elia descrive l’abbigliamento delle donne del luogo: «vanno vestite d’una blusa e d’una gonna bianca, arricchita di quattro, cinque e fino a sei volanti della stessa stoffa, caricatamente inamidate e stirate, d’una forma tale che quando camminano fanno un rumore simile ad una vela di bastimento sparsa al vento. Alcune, le più possidenti, si coprono il seno e le spalle con uno scialle finissimo di lana nera: le altre, poi, che sono la maggior parte, si coprono con uno scialle di percallo bianco; e fanno ricordare così il vestito delle donne ebraiche ai tempi di Gesù Cristo, colla differenza che queste calzavano i sandali, mentre le paraguayane popolane vanno tutte scalze. Oltre a ciò, queste donne non camminano per le strade senza avere in bocca un grosso sigaro smorzato, che in lingua guarany chiamano cigarro guassù (sigaro grande)». Il Paraguay visto da D’Elia, ancora stremato per l’insensata guerra contro Brasile, Argentina e Uruguay voluta dal folle tiranno Solano Lopez nel periodo 1865 – 1870, che era costata la vita a 700.000 paraguayani su un totale di circa un milione, si sta appena risollevando, ma è ancora politicamente instabile, dato che un golpe militare ha da poco spodestato il presidente conservatore Emilio Aceval.
Le sterminate praterie del Rio Grande do Sul
Nell’autunno del 1902 D’Elia si trasferisce a Saô Vicente, nello stato brasiliano del Rio Grande do Sul, e da lì nella colonia Jaguaray, in qualità di visitatore. Il governatore del Rio Grande do Sul è il carismatico Borges de Medeiros (resterà al potere dal 1898 al 1928, sarà candidato alle elezioni presidenziali del 1933 e morirà alla veneranda età di 96 anni), che favorisce enormemente l’afflusso di emigranti italiani a Porto Alegre. I paesaggi che descrive D’Elia sono assai suggestivi: «In fondo ai cespugli, nell’ombra, sulle colline chiare, il verde assumeva gradazioni d’intensità infinitamente varie. Il sole levante, che appariva dietro le cime dei promontorii, gettava in quella natura ricchissima il fulgore attenuato dei suoi raggi obliqui, e faceva splendere la rugiada sulle felci e sulle alte erbe». Sono sprazzi letterari di pregio assoluto, in un libro spesso discontinuo e spezzettato, con interminabili divagazioni storico-biografiche che mettono a dura prova la pazienza del lettore refrattario verso la scrittura prolissa d’impronta ottocentesca (D’Elia purtroppo non è Tolstoj). Ma quando non s’incaponisce nei panegirici dei caudillos locali dai quali, evidentemente, si attendeva qualche raccomandazione per sbarcare il lunario, D’Elia si rivela narratore fresco e spontaneo, talvolta quasi conradiano in alcune riflessioni sul complesso rapporto fra l’uomo e la natura: il suo riferimento basilare rimane comunque Kipling per la fiducia positivistica nel progresso umano che traspare dalle sue pagine. Anche se nelle sue riflessioni conclusive emerge un amaro disincanto: «La civiltà ha pervertito l’amore, lo ha idealizzato troppo, gli ha chiesto ciò che non poteva dare, lo ha falsato, lo ha traviato. Lo ha degenerato e ha creato perciò gli spostati, gl’illusi, gl’incompresi. La civiltà ha ucciso la fede, che è felicità dell’incoscienza e dell’ignoranza, ci ha empiti di sapere, inutile e torturante sapere. Impuri, corrotti, falsi, noi ora combattiamo con la frode invece che con la violenza, barbara forse, ma coraggiosa e sincera. Qual è il guadagno?».
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 58, giugno 2012)
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