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Anno VI, n. 56, aprile 2012
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Politica ed Economia (a cura di Alba Terranova) . Anno VI, n. 56, aprile 2012

Zoom immagine Lavoro e disuguaglianza
in un mercato senza regole.
Un’attuale indagine rivela
errori e possibili soluzioni

di Felice Lopresto
Il nostro mercato contemporaneo
in un libro pubblicato da Pellegrini


Il lavoro e la precarietà che rendono incerti la vita e il sostentamento; l’auspicata uguaglianza abbattuta da relazioni economiche intrise di interesse e tornaconto e i possibili cambiamenti da attuare verso un percorso di equità e giustizia.

Questi i temi salienti dell’attuale testo di economia, Le regole del mercato senza regole di Felice Lopresto, edito da Pellegrini (pp. 238, € 18,00).

Abbiamo deciso di riportare di seguito l’interessante Introduzione della pubblicazione, a firma dell’autore.

Quest’ultimo si interroga sulle varie tematiche legate al vasto mondo del sistema produttivo, rilevando i punti deboli e le possibilità di miglioramento di una situazione che, attualmente, è destinata all’implosione.

Il tutto condito da uno stile lineare e citazioni efficaci.

Buona lettura,

 

La redazione

 

Introduzione

 

L’idea che gli squilibri facciano parte dell’ordine naturale è invalsa, ma non scontata. «I poveri li avete sempre con voi», dice Gesù [1]. Questa affermazione non vuole provocare un fatalismo rassegnato e negare agli indigenti una vita più dignitosa, ma invita a stare a fianco a coloro che versano in condizioni di precarietà e, nel contempo, a vincere l’egoismo che impedisce di condividere ciò che si possiede, facendo della giustizia la regola di condotta.

Il testo, sottoposto alla pazienza e alla benevolenza dei lettori, solleva il problema della disuguaglianza e indica le proposte per porvi rimedio, nella consapevolezza che il risultato potrebbe rivelarsi inadeguato – certamente per i limiti personali di chi lo scrive –, ma se anche egli fosse sufficientemente attrezzato per sostenerne l’impresa, l’argomento presenterebbe comunque difficoltà ad essere scandagliato compiutamente, perché il desiderio di uguaglianza è un’aspirazione profonda dell’uomo, che si insedia in quelle pieghe dell’animo la cui esplorazione non risulta mai agevole, né definitivamente realizzata. Ciononostante, ritengo che il tentativo vada fatto, sostenuto dalla convinzione che sia possibile immaginare una vita migliore per tutti. Amava ripetere Helder Camara, il vescovo dei poveri: «Beati quelli che sognano: trasmetteranno speranza a molti cuori e correranno il dolce rischio di vedere il loro sogno realizzato» [2].

Per dare corpo a questo sogno, mi avvarrò dell’ausilio di coloro che su questo argomento scrivono per professione e per passione e, all’occorrenza, delle Scritture, guida sapiente e fidata. Cercherò di illustrare gli squilibri generati dal processo economico, che si affida ciecamente alle virtù del mercato, e di dimostrare che la disuguaglianza è una degenerazione, o meglio un male, e non la condizione naturale della società. Viceversa, l’uguaglianza è un bene: un valore da realizzare.

La condivisione delle risorse produce una società più giusta e favorisce un più diffuso benessere: si realizza facendo partecipare il più ampio numero di persone alla produzione della ricchezza, soprattutto tramite il lavoro, luogo preferenziale di esercizio delle qualità umane, che merita giusta considerazione e tutela.

È sotto gli occhi di tutti che il lavoro è oggi sempre più asservito al processo produttivo e ha perso, nel tempo, il legame con il suo risultato. La precarietà è ormai un suo tratto costitutivo. Le conseguenze sono: basse retribuzioni e disoccupazione. Aumentano i processi di delocalizzazione del lavoro per rendere vantaggioso il suo impiego. Sembra smarrito il senso di responsabilità nei confronti dei lavoratori, considerati non persone, ma fattori del processo produttivo. Cresce il divario retributivo tra lavoratori scarsamente qualificati e quelli particolarmente professionali e i vertici aziendali. Aumenta lo scarto tra gli estremi. Le stesse merci non sono più valutate in base alla quantità di lavoro necessarie per produrle – come è avvenuto per lunghissimo tempo – quanto piuttosto alla loro utilità reale o presunta.

Questi esiti sono frutto dell’invadenza del capitale che, attraverso vari adattamenti, si muove su diversi scenari, spinto dagli interessi di gruppi consolidati che cercano di affermare il proprio predominio. Ne segue un sempre maggiore accumulo di ricchezza, che non sembra incoraggiare lo sviluppo. La ricchezza può essere investita e generare crescita o, viceversa, essere utilizzata per pratiche speculative. Il permanente desiderio umano di diventare ricchi e senza fatica spiega l’interesse per strumenti finanziari che promettono mirabolanti rendimenti. La ricchezza così prodotta finisce poi per essere dissipata: The price of greed, la crisi è il prezzo della cupidigia, ha titolato il Time [3]. Sarebbe interessante calcolare il saldo di benessere generato da questa finanza allegra e distratta, viste le conseguenze nefaste che essa produce sulle economie di vari Paesi.

Le risorse destinate a operazioni speculative non producono né sviluppo, né occupazione. Il denaro deve essere utilizzato per uno scopo utile e non esclusivamente per il tornaconto di chi lo possiede. La ricchezza accumulata e non condivisa porta all’egoismo [4]. Ricorda Paolo Prodi che, alla fine del Duecento, nella prospettiva francescana «appare peccato contro la carità non la ricchezza in se stessa ma la sua tesaurizzazione improduttiva ed egoistica: sterile in se stessa […] la ricchezza diviene positiva se circola in funzione del bene del prossimo, per lo sviluppo della società» [5].

È impressionante notare come questo insegnamento rimanga attuale e come non se ne tenga conto. Un punto nodale sull’utilizzo dispersivo della ricchezza è rappresentato dalla «definizione di furto data all’inizio dell’età moderna da Juan Luis Vives nel 1526 nella sua famosa opera De Subventione pauperum: Ladri sono tutti coloro che non utilizzano le loro ricchezze in funzione del bene comune ma le tesaurizzano o le dissipano» [6]. Troviamo «nelle prediche di Roberto Bellarmino espressioni altrettanto significative […] Le ingiuste ricchezze non sono soltanto quelle acquistate con mezzi ingiusti, con il furto o con la frode ma anche quelle che, pur possedute con giusto titolo, non sono usate in funzione del bene della comunità» [7].

Non è saggio il perseguimento della ricchezza per la ricchezza, aggiunge Socrate [8].

Riprende Benedetto XVI: «L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà» [9].

La crisi economica, che pesa sulle spalle di «tanti milioni di persone, è il risultato dell’avidità, della ricerca senza freni del profitto, del disprezzo per la dignità delle persone e dei diritti dei lavoratori» [10]. Una crisi che ha creato milioni di disoccupati, e tuttavia ha salvaguardato i profitti delle banche e i generosi appannaggi dei banchieri.

La ricchezza mal distribuita comprime la crescita e genera disuguaglianza.

Le disuguaglianze, avverte Alfred Marshall, e specialmente i bassi guadagni delle classi più povere, hanno come effetto quello di deprimere l’attività e di limitare la soddisfazione dei bisogni [11].

Le distanze che intercorrono tra gli uomini possono sì dipendere da cause strutturali, ma più frequentemente sono provocate dal tornaconto di persone, Governi e istituzioni inclini a conservare i propri privilegi e ad opporsi ad una più equa ripartizione dei beni e delle risorse esistenti.

Un ulteriore elemento che scoraggia la crescita è l’accentuazione della distanza tra la fase di produzione della ricchezza e quella della sua distribuzione. La riduzione dei passaggi nell’impiego del reddito permette un ampliamento della cerchia dei suoi fruitori. La più equa ripartizione del reddito che ne deriva, consente uno sviluppo umanamente ed economicamente sostenibile e l’accesso a condizioni di vita migliore ad una platea sempre più vasta della popolazione mondiale. Non è la concentrazione di ricchezza a portare benessere, ma la sua distribuzione.

È meglio un minor incremento di ricchezza equamente ripartito, che un incremento maggiore destinato a pochi. Questo significa dare centralità al lavoro attraverso una crescita dell’occupazione e una sua migliore remunerazione, ed allargare lo scenario di coloro che partecipano al processo produttivo e ne condividono i risultati.

La giustizia distributiva [12] deve essere considerata un valore guida delle relazioni e dei processi decisionali. Rappresenta la condizione per una reale promozione dell’uomo e ne evita la sua marginalizzazione. Dà una fisionomia più umana ai luoghi in cui trova accoglienza, produce una più giusta diffusione della ricchezza e un più consolidato benessere.

 

Felice Lopresto

 

(www.bottegascriptament.it, anno VI, n. 56, aprile 2012)

 

[1] Vedi Marco 14, 7.

[2] La citazione è ripresa dall’articolo di B. FORTE, Natale il sogno di un paese non diviso, «Il Sole 24 Ore», 24 dicembre 2010, p. 1.

[3] Vedi, A. Serwer - A. Sloan, The Price of Greed, «Time», 29 settembre 2008, p. 18.

[4] Vedi, S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 43.

[5] P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, il Mulino, Bologna, 2009, pp. 60-61.

[6] Ivi, p. 76.

[7] Ivi, p. 77.

[8] Vedi, Senofonte, Economico, 2, in S. Latouche, L’invenzione dell’economia, cit., p. 54.

[9] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2009, § 21.

[10] J. R. Armogathe, Cattolicesimo. Il nuovo capro espiatorio, «Avvenire», 10 gennaio 2010, pp. 4-5.

[11] Vedi, A. Marshall, Principi di economia, Milano Finanza Editori, Milano, 2006, p. 932.

[12] Sul tema della giustizia e sui suoi diversi significati vedi anche A. SEN, L’idea di giustizia, Arnoldo Mondadori Editori S.p.A., Milano, 2010.

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