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Anno VI, n. 56, aprile 2012
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Politica ed Economia (a cura di Alba Terranova) . Anno VI, n. 56, aprile 2012

Zoom immagine La criminalità
organizzata
nel Nord Italia

di Vilma Formigoni
Aliberti pubblica una ricerca
su come la ’ndrangheta
si sia imposta in Emilia


Mafia: parola che gli studenti imparano a conoscere sui banchi di scuola e che collocano all’interno della ormai famosa “Questione meridionale”. Se tuttavia la memoria scolastica si smarrisce nei meandri dell’esistenza, la “mafia”, intesa come fenomeno socioculturale, continua ad esistere e a connotare ormai non solo le regioni del Sud ma anche quelle “lontane” del Nord, assumendo le caratteristiche di organizzazione socioeconomica potente che detta legge all’imprenditoria locale, stremata dal silenzio istituzionale e mortificata dall’indifferenza sociale e senza adeguati strumenti di opposizione.

La ricca Emilia Romagna, un tempo territorio che nei progetti di Palmiro Togliatti, ossia del socialismo riformista doveva diventare «esempio di buona amministrazione e benessere sociale», è la regione in cui si svolge la coraggiosa indagine di Sara di Antonio che, laureata in storia contemporanea e giornalista pubblicista, cura le pubbliche relazioni per enti pubblici e partiti politici (Sara di Antonio, Mafia. Le mani sul Nord, Aliberti editore, pag. 158, € 14,50).

Il libro in questione non è un romanzo o un saggio, ma una coraggiosa inchiesta sulla penetrazione, silenziosa ma non troppo, della mafia in Emilia Romagna, soprattutto nel settore dell’edilizia. Si tratta di un’indagine incalzante e puntuale, articolata in tre voci distinte ma strettamente connesse l’una con l’altra in attività che pongono all’attenzione del lettore le strategie operative, i colpevoli silenzi, la stanca indifferenza di una popolazione che arricchitasi subisce passivamente le prepotenze mafiose nella consapevolezza di una tradizione celebrata, ma di fatto annientata dalla suggestione del denaro.

 

Fatti e persone

Dopo l’introduzione curata dall’autrice, nel corso della quale emerge l’immagine di un’Emilia che «cerca una nuova identità», la prima voce che incontriamo è quella di un magistrato di Reggio Emilia che, «travolto da una sensazione di miseria, di stordimento», ha l’impressione che «lungo la strada di Emilio Lepido si esalti la triste cementificazione delle nostre anime». Egli riflette su una Emilia Romagna che non esiste più, sulle trasformazioni subite dal modello emiliano, sognato dall’entusiasmo dei comunisti come un laboratorio di equità sociale e ormai basato su «un’indifferenza sociale, dove i drammi privati vengono dati in pasto al pubblico e il dramma collettivo di una società che affonda viene nascosto con incomprensibile pudicizia». A questo ha portato la criminalità organizzata che in Emilia non spara ma fa affari condizionando pesantemente il tessuto sociale ed economico della regione. Il magistrato è stanco di arrestare «nordafricani mentre certi commercialisti sono a spasso. Ma mi accuserebbero […] di essere un magistrato talebano». Egli sa bene che nessuno osa segnalare operazioni sospette, anche se tutti «sanno» e cerca di capire le ragioni per le quali la ndrangheta, dalla bellissima Calabria si sia spostata verso l’Emilia.

Il ritratto del magistrato che l’autrice propone è quello di una persona profondamente delusa e amareggiata da una giustizia che gli fa arrestare il nordafricano piuttosto che portare avanti inchieste sul riciclaggio o sulle estorsioni. Magistrato dal volto umano e segnato da una profonda solitudine, prende atto dell’enorme sviluppo edilizio di Reggio Emilia ad opera di società calabresi diventate potente motore economico e sociale con il favore delle «scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi e medie città, veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ’ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine».

C’è, puntuale, anche l’amara constatazione che si combattono i «ladri di polli» odierni o le persone dalla «faccia scura», come quella del nigeriano spacciatore, mentre l’opinione pubblica non si scandalizza ormai più per i veri crimini contemporanei come le usurpazioni, il malaffare, il riciclaggio, l’usura e il traffico illecito dei rifiuti che muovono impunemente ingenti somme di denaro.

L’opinione pubblica indifferente e un’antipolitica inadeguata hanno certamente contribuito al fallimento dell’ormai superato sogno sociale per lasciare spazio alle leggi impietose del denaro.

La coraggiosa inchiesta della Di Antonio propone un’altra voce, quella dei «giovani criminali», che ribadiscono con insistente sicurezza di essere venuti per affari perché «siamo la ’ndrangheta e rappresentiamo la fornitura di servizi a basso costo per l’economia e la politica». La “voce” di Cutro spiega con riferimenti precisi e concreti, le modalità di acquisizione del territorio e delle attività economiche che mascherano l’elusione fiscale, il riciclaggio, il controllo della droga, l’usura diffusa su larga scala, alimentate dalla disponibilità di denaro contante e dalla difficoltà delle imprese in crisi di accedere al credito bancario. Dall’indagine emerge che la ’ndrangheta ha pochissimi pentiti e contrappone al modello sociale emiliano quello delle comunità calabresi in cui lo ius sanguinis è un vincolo totalizzante che comprende la famiglia, la parentela e l’identità paesana.

Non mancano nel libro riferimenti a fatti di cronaca nera che hanno impegnato a lungo, a seguito di indagini della Dda, numerose procure e aule giudiziarie. Questi giovani sembrano tuttavia orgogliosi dell’appartenenza alla “famiglia”, dalla quale hanno appreso tutto ciò che serve per vivere, mentre i giovani emiliani, «pasciuti quietamente tra oratori, ludoteche e scuole a tempo pieno, mentre le loro madri erano al lavoro come impiegate o professioniste» si limitano a trascinarsi stancamente nelle discoteche gestite dalla mafia.

Panorama socioculturale, quindi, quello dei giovani calabresi, che sconcerta e incuriosisce il lettore, invitato a leggere la terza “voce” dell’inchiesta.

Si tratta dei «White collar crimes» (crimini dai colletti bianchi), così denominati per probabile ispirazione ad una famosa serie televisiva. È quanto meno sconcertante il ritratto dell’avvocato Casali di Parma, è irritato da «tale Saviano, che non fa altro che parlare male del nostro Paese. […] Come l’altro scrittore, quel Carlo Lucarelli, che ha diffuso i dati sui beni confiscati dall’Agenzia del Demanio. […]. Questi scrittori diventano famosi, e poi iniziano a lanciare allarmi spaventando i cittadini onesti». Egli conosce bene i meccanismi e le persone che gestiscono gli appalti pubblici, che praticano l’usura e ricorrono alle tangenti, mentre i magistrati talebani affamati di giustizialismo «aprono inchieste su lavori scadenti» e i «virtuosi amministratori locali», impegnati in commosse rievocazioni della Resistenza, non si rendono conto di chi comandi veramente in città.

I clienti dei colletti bianchi sono imprenditori edili a vario titolo coinvolti in indagini sull’usura, sulla appropriazione di aziende, sul riciclaggio; se l’avvocato rinunciasse a loro si sentirebbe certamente «pulito», ma insoddisfatto, convinto che «non si gioca a scacchi con il buon cuore». Pecunia non olet, è la realistica e amara riflessione del professionista, anche se il ricordo dei valori paterni di tanto in tanto affiora.

La conoscenza di fatti criminosi e di persone ad essi collegate è precisa e puntuale, con nomi e cognomi, ma altrettanto precisa e puntuale è l’analisi della società emiliana che emerge dalle “voci”, costituita da gente perbene, «rinchiusa nei circoli privati» che sembra voler ignorare come la cosiddetta “mafia dei colletti bianchi” si sia impadronita della città.

La solitudine dell’avvocato non è confortata nemmeno da Maria Cristina, amica e amante da lungo tempo, commercialista affermata, che non sembra provare alcuno scrupolo nell’aiutare i clienti ad eludere i controlli fiscali. L’amara constatazione è che il benessere, il lusso, la sete di potere attirano la malavita: quindi non resta che adeguarsi ed incontrare in un lussuoso albergo il solito cliente facoltoso.

 

Perché leggere il libro di Sara di Antonio

In questo amaro panorama in cui si incontrano un avvocato, che sembra avere adeguato la deontologia professionale alla realtà locale; un magistrato che vive la delusione di ideali che contraddicono il quotidiano; un giovane ’ndranghetista orgoglioso di quello ius sanguinis sul quale ha costruito la propria vita, l’inchiesta si snoda in modo rigoroso e, soprattutto, coraggioso.

L’autrice non esita a citare i protagonisti di inchieste condotte prevalentemente al Sud escludendo di fatto la ricca Emilia che, col suo modello sociale, sembrava immune alla mafia. Sara di Antonio non giudica; raccoglie le voci dei protagonisti, cita ordinanze di tribunale, risultati di indagini e sentenze di processi. Sulle infiltrazioni mafiose in regione raccoglie messaggi allarmanti che nessuno ha voluto o saputo ascoltare, e cita Enrico Bini, presidente della Camera di commercio di Reggio Emilia quando afferma «come se denunciando il radicamento della criminalità organizzata nella nostra città – così come in tutta l’Emilia Romagna e il Nord Italia – io stessi offendendo il mio territorio, sporcandone l’immagine, svilendone il valore».

È il racconto, questo, di Sara di Antonio, di un’Emilia Romagna che, senza indulgere alla malinconia di valori ormai perduti, mette il lettore di fronte ad una realtà amara e dolorosa che dovrebbe indurre a smettere di fingere di non vedere, per cambiare prospettiva, recuperando quel valore sociale al quale il bene individuale dovrebbe sempre fare riferimento.

 

Vilma Formigoni

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 56, aprile 2012)

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