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Direttore editoriale: Giovanna Russo
Anno VI, n. 56, aprile 2012
L’età di un ragazzo: forza
di scoprirsi oltre la paura
di Maria Grazia Franzè
Da edizioni Associate una storia speciale
che insegna ad accettare se stessi sempre
In pochi e incisivi colpi, il racconto attraversa tematiche tutt’altro che superficiali e scontate. Una storia romanzata ma attualissima dove i temi principali sono la trasformazione e il disagio che un giovane ragazzo è costretto a vivere in una famiglia romana. «Le solitudini hanno cominciato a correre nella mia casa. Ogni tanto si incrociano, si sfidano e attendono un incontro finale, una resa dei conti, un duello». Le vicende quotidiane, il silenzio e le trasformazioni dell’età, portano Michele, il protagonista, a scoprire nuovi modi di vivere la sua adolescenza. È Antonella Cristofaro, un’autrice romana e insegnante di lettere nel carcere di Rebibbia, a scrivere Il ramarro (edizioni Associate, pp. 138, € 14,00), breve storia attraverso la quale raccoglie, con una scrittura lucida e accorta, la realtà imperfetta, insidiosa, ostile, che a volte si crea tra le mura domestiche.
Michele è il figlio più grande, poi c’è Maria. Una famiglia come tante, che vive in una delle zone più facoltose di Roma, il quartiere Prati, in una condizione economica agiatissima. Il racconto si apre con un linguaggio descrittivo, direttamente attraverso la voce del protagonista, Michele («ho tirato con la fionda contro un albero e il ramarro che se ne stava sul muretto disteso al sole è scappato via. Un sibilo ed è sparito muovendo l’erba alta che odora di maggio»), che si trova all’aperto ed è colto dall’interesse per il ramarro. È primavera, nell’aria si respira un profumo di cambiamento, di metamorfosi, ed anche Michele vive il suo cambiamento in relazione alla sua età. Il protagonista è un adolescente, inizia a non mangiare, a sentire che il suo corpo muta e si chiude in se stesso difendendo la sua interiorità dagli occhi affettuosi della famiglia, un affetto silenzioso e quasi impercettibile. Maria, la sorella, è un’adolescente che scopre l’amore e le stagioni che solo in quell’età si vivono, mentre i genitori attraversano una fase matrimoniale poco felice che li porterà alla fine della loro unione. In queste circostanze, alla fine del matrimonio, corrisponde la nascita in Michele di una forte consapevolezza: quella di dover abbandonare la sua famiglia per sentirsi libero di mostrare la sua vera identità.
Prigioniero o carnefice?
«Allontanai lo sguardo dal mio piatto e mi accorsi che gli altri avevano già finito. Lidia ridacchiava sulle sue nocche grassocce. I miei genitori erano immobili davanti ai loro piatti vuoti; Maria era rimasta in cucina, la sentivo spostare le pentole dalla macchina del gas al lavandino e poi distinsi i rumori della credenza. Mi sentii prigioniero di quella stanza, così pensai a loro, a quelli che erano seduti al tavolo con me. I miei commensali. Capii che in realtà erano loro ad essere prigionieri, i miei ostaggi». A causa delle lunghe cene e dell’avversione che nasce nei confronti del cibo, Michele si allontana dai genitori e dalla sorella che percepiscono il disagio del ragazzo ma restano in silenzio. Michele in questi gesti si ritrova solo ma, più che vittima, si scopre libero. Al suo rapporto col cibo si aggiunge quello con la sua sessualità e nello stesso momento in cui capisce di essere omosessuale comprende anche di non essere lui il debole della famiglia, bensì il più forte. «La malattia è una possibile geometria e il mio corpo è lo spazio euclideo con il quale percepisco il mondo. Il mio pensiero è qui, per stabilire i rapporti di casualità. Per regolare, svolgere e infine determinare gli stati di necessità».
La forza di ricominciare
Veloce e tenace come un ramarro, Michele, non solo si riappropria dei propri spazi in poco tempo, ma diviene il componente familiare più stabile. Quando i genitori si separano, infatti, diventa un punto di riferimento solido per la sorella Maria e per la madre, preda dell’alcool. Michele è un giovane adulto non più in balia della scoperta del proprio corpo o delle proprie sensazioni; Michele si è conosciuto ed è deciso ad affermarsi davanti a tutti in tutta la sua verità e personalità. Michele è solo omosessuale: non è “malato”. Così trova il coraggio di lasciare la casa, di vivere la propria omosessualità senza vergogna, lontano da Roma, con un vecchio amico d’infanzia, Andrea, per il quale ha sempre nutrito un grande affetto. Michele in questo modo diventa non solo il protagonista del racconto ma anche l’emblema del ragazzo incompreso che per essere accettato deve urlare contro tutti e dimostrare che il vero malato non è chi è diverso ma chi non accetta se stesso, il proprio modo d’essere. Il momento in cui Michele si ritroverà libero nel mondo sarà anche il momento in cui rivelerà alla madre tutto il suo disprezzo e l’astio per tutti i suoi silenzi, le sue mancate presenze negli anni della crescita. Il distacco familiare è stato avvertito da Michele sin dai primissimi anni dell’adolescenza, quando la madre lo vedeva ma non lo osservava, c’era ma non era presente e, di questo, Michele se ne libererà nell’istante che precede il suo definitivo abbandono della casa dei genitori. In un raro momento di solitudine con la madre, infatti, Michele non esita a rinfacciarle un passato di assenza: «Non usavi guardarti molto allo specchio, lo sai? Voltavi le spalle a te stessa, ma non a me, che ero lì, dietro la porta ad aspettare, a origliare. Aspettare di vederti davvero. Che tu fossi con me. Sei sempre fuggita. Anche se stavi qui, non c’eri», dimostrandole, così che se non si è presenti per se stessi non lo si può essere neppure per i propri figli.
Maria Grazia Franzè
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 56, aprile 2012)
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