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Anno II, n° 5 - Gennaio 2008
I versi sublimi
di un’indiana
multiculturale
di Alessandro Tacconi
L’editore Donzelli pubblica
la silloge di Sujata Bhatt:
una poesia molto intensa
La poesia di Sujata Bhatt racconta della propria terra natale, una terra di ricordi che si accendono sul filo di un suono, il segno del sogno di parole profondamente radicate nella sua carne. Questo il senso della prima raccolta di poesie, datata 1988, intitolata Brunizem, contenuta nel suo volume dal titolo Il colore della solitudine (Donzelli, pp. 204, € 12,90). Timore viscerale di perdere, smarrire per sempre il ricordo di quella madre-lingua, di quella madre-terra lontana migliaia di chilometri, lasciata per seguire il proprio desiderio interiore di esplorazione e anche l’amore.
Il ricordo, quindi, non è rimpianto, non è sofferto afflato, non è malinconico stordimento, ma è momento di reminiscenze, di riflesso interiore che viene poi trascritto sulla pagina, come nella poesia Udaylee: «… la conchiglia dello strombo all’orecchio / per sentire il mio sangue che precipita, / un canto che pulsa, / un lento martellio nella testa, nei fianchi».
Il segno poetico è il sentiero che permette alla poetessa indiana di vivere intensamente la propria identità, attraverso il recupero della sua lingua-natale. Il battito contro il palato di fonemi antichi, arcaici, amati in modo viscerale ripropone – e pare quasi inutile dirlo – il battito del proprio esistere anche lontano dalla propria fonte generatrice, come nella poesia In cerca della lingua: «Giorni che la lingua mi scappa. / Non so trattenerla. / Sfugge come la coda della lucertola / che tento di afferrare, / ma la lucertola sfreccia lontano».
E sulla pagina compaiono gli antichi segni della lingua amata, lasciata al decollo dell’aeroplano e mai abbandonata, seppure nella timorosa consapevolezza che la memoria conserva parti, non abbraccia il tutto. E allora il sogno, benigno e rasserenante, soccorre la donna, le sussurra parole d’altri tempi, la culla in mezzo a un ritrovato e ispirato versificare.
Il dialogo si apre, quindi, non solo con le figure care della propria storia familiare, ma anche con il frutto polposo della propria terra: i personaggi divini, gli impermanenti e sempiterni dei, che tutto vedono, ascoltano e muovono in modo benigno. Nel profondo (dove altrimenti?), avviene il dialogo più importante che, ci pare, è in grado di raccogliere tutte le lingue del mondo, perché è linguaggio di amore e di comunione.
Quando il viaggio procede lontano da casa, tra le Ombre delle scimmie
Il mondo è scoperta, giaciglio misterioso che si apre a ogni più profonda e sospirata scoperta. Basta saper cogliere le lettere che compongono il lemmario dell’animo: sogno, serenità, alba, visione, arcobaleno, farfalla.
Ma se il sogno prende i colori di un Paese come quello degli Stati Uniti, tanto altero e moderno, che grida a tutto il resto del mondo che il suo “sogno” è quello a 24 carati laccato di platino e di delicate merendine, allora forse si crea una frattura tra il proclama e quanto si vede nelle strade di una città qualsiasi del paese tanto sognato, come nella poesia Attraversando il ponte di Brooklyn, luglio 1990: «A New York / questa estate / sparano ai bambini. / Quasi sempre è un incidente. / Un altro, certamente un adulto / doveva essere ucciso. / Non è guerra / è solo un modo per sistemare una discordia. / Attraverso il ponte di Brooklyn / ci sente lontani da tutto / come chi su un aereo / sorvola a bassa quota».
Le cronache dei tempi moderni appaiono allora inumane, da questa parte dell’arcobaleno, da questa parte del magico mondo. E allora si può scoprire con un semplice giochi di specchi che il fatato mondo di Oz è un semplice Zo a cui mancano troppi pezzi, a cominciare dalla vocale che inneggia allo stupore estasiato di un bambino, la semplice e immacolata “o”. La bocca in terra d’America resta aperta, ma solo per l’attonito terrore.
Una futura madre come
La gioia della maternità, il proprio corpo che muta, che cambia consistenza, che acquista odori e ne perde altri, che desidera in modo più intenso e viscerale, che non si considera esaurito una volta ricolmato e svuotato di quel sogno fatto carne. Perché quel sogno è ciò che le permette di sussurrare tra sé che comunque questo resta un mondo meraviglioso, che regala delizie, se solo si riesce a mantenere la trasparenza dello sguardo, proprio riconoscendo la propria natura animale, come durante una visita allo zoo. Basta Lo sguardo: «Vorrei scivolare dentro / quello sguardo, sapere / quello che pensa il cucciolo dell’uomo / quello che pensa il cucciolo della scimmia / in quel preciso istante».
Un dialogo che prosegue nel profondo del proprio immaginario
Ognuno ha la propria gabbia e dentro ci mette i poster che desidera, le immagini preferite, quelle familiari, quelle tratte da divine super sacre scritture di ogni epoca e tempo. Il giaciglio in cui ci si adagia si riempie di frutti e fiori e il racconto diventa più autoreferenziale, ma forse non è sempre stato così?!
La rosa malodorosa del 1995 è la via verso se stessa, che scende ancora più in profondità, che raccoglie le tracce di un disagio (?), quando tanti e brutali fatti di cronaca hanno come unico risultato quello di lasciarci attoniti, frastornati, facendoci chiedere come mai non sia possibile trovare un mondo migliore, un modo migliore di voler vivere in questo mondo: «Una donna uccide la figlia neonata / eppure continua a mangiare / e a indossare il suo sari verde. / Dire questo significa mettersi a giudicare? / Oppure farsi testimone / con le parole?». Questo mondo sarebbe meraviglioso, sarebbe un sogno, ma «Quanta realtà puoi sopportare? / E se sei un poeta / perché non riesci a guarire / con le parole?».
I balocchi della quotidianità lavorativa svaniscono, assurgono più che altro a simboli di un paesaggio interiore incollati come figurine a un album che smarrisce per forza di cose i margini, grazie alla nuova lingua e a quella vecchia che dialogano insieme.
La dimensione del verso acquista allora una maggiore universalità. La poetessa ha viaggiato, ha vissuto, ha conosciuto, ha intrattenuto rapporti e relazioni con il proprio tempo e ora lo racconta in modo personale (ma non l’ha forse sempre fatto?!).
Ogni nuova poesia domanda appunto questo: non l’ho sempre fatto? Non ho sempre chiesto il motivo della mia esistenza? Non ho sempre cercato di amare il mondo, anche nei momenti di sconcerto, dove la musica del mio cuore sembrava essersi seccata per sempre?
L’augurio, proprio perché abbiamo iniziato ad amare davvero la scrittura di Sujata Bhatt, è che non conceda troppo al dialogo letterario, ombelicale, al dialogo interiore con scrittori, ma continui a narrare la carne viva del mondo.
Alessandro Tacconi
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 5, gennaio 2008)
Mariangela Monaco
Alessandro Crupi, Valentina Pagano, Giusy Patera, Roberta Santoro, Andrea Vulpitta
Monica Baldini, Rita Felerico, Daniela Graziotti, Luisa Grieco e Mariangela Rotili, Mariangela Monaco, Valentina Pagano, Giusy Patera
Monica Baldini, Martina Chessari, Alessandro Crupi, Felicina Di Bella, Rita Felerico, Clementina Gatto, Daniela Graziotti, Luigi Innocente, Luisa Grieco e Mariangela Rotili, Ennio Masneri, Mariangela Monaco, Alessandra Morelli, Valentina Pagano, Giusy Patera, Luciano Petullà, Roberta Santoro, Alessandro Tacconi, Silvia Tropea, Andrea Vulpitta