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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
La preziosa eredità
di Mario Pannunzio,
grande giornalista
della scena italiana
di Salvatore De Mauro
Da Rubbettino un saggio dedicato
a un eroe del pensiero critico laico
interprete lucido del Secolo Breve
Il binomio Mario Pannunzio – Il Mondo è un cliché duro ad essere demolito soprattutto perché il settimanale, nato dalla penna del giornalista lucchese, fu senza dubbio la sua “creatura” più matura ed il suo capolavoro culturale. Dunque, chi fa questa equivalenza in fondo non sbaglia, dato che, come ha scritto Massimo Gramellini, «questa rivista ha cambiato la cultura e il giornalismo italiano del secondo dopoguerra», ma si arresta alla superficie, tutto qua. Ma proprio perché «Mario Pannunzio non fu solo Il Mondo», e la sua lezione intellettuale, oltre che giornalistica, per essere bene intesa e non rimanere ancorata ad una visione troppo angusta, non può prescindere da alcuni avvenimenti fondamentali che costellarono la sua vita fin dalla giovane età, si è resa necessaria un’opera che ricollocasse Pannunzio nel giusto posto all’interno del panorama culturale italiano, nel quale egli occupò un posto di primissimo piano. In questa direzione si è mosso quindi il saggio curato da Pier Franco Quaglieni, Mario Pannunzio. Da Longanesi al «Mondo» (Rubbettino, pp. 156, € 12,00), pubblicato non a caso nel 2010, anno in cui ricorreva il centenario della nascita del giornalista toscano.
L’intento esplicito del curatore consiste nel contribuire a far conoscere alcuni aspetti finora trascurati, per disprezzo o furore ideologico, e per questo motivo il saggio è stato scritto a più mani, ciascuna delle quali pennella un tratto caratteristico, per restituirci alla fine un’immagine a tutto tondo del giornalista lucchese.
Il rapporto di odio-amore con Longanesi
Certamente trascurato dalla maggior parte della critica, troppo concentrata sul binomio Pannunzio-Il Mondo o troppo impegnata ad esaltarlo post mortem almeno quanto l’aveva disprezzato in vitam, è stato certamente il rapporto tra Mario Pannunzio e Leo Longanesi. Il gelo calato dopo anni di amicizia e collaborazione insieme, causato dall’uscita nel 1948 di un pamphlet apparentemente di sapore neofascista, In piedi e seduti, pubblicato dal giornalista romagnolo, venne infranto da Pannunzio solo nel 1957, anno in cui Longanesi morì. Dunque la frattura tra i due si deve giocoforza ricondurre al Fascismo: da un lato il “fascistissimo” (anzi “mussoliniano”) Longanesi, dall’altro il “veramente democratico” Pannunzio.
Eppure, a ben vedere – afferma Marcello Staglieno – la sottile linea che li divideva non era ben marcata, perché Longanesi aborriva sia la retorica del regime sia la corruzione dei gerarchi, spesso accompagnata da una volgarità che si estendeva anche ai nuovi ceti emergenti. Pannunzio, dal canto suo, seppe agevolmente muoversi anche nel mondo fascista, attraverso i cui canali raggiunse il successo. Ma nell’Italia del Ventennio le persone che contavano qualcosa nella società, volenti o nolenti, erano a contatto con il regime. Più che un antifascista, egli si comportò da “afascista”, manifestando una profonda atarassia verso tutto quello che ruotava attorno alla galassia del Duce: la dittatura era per lui un’eccezione e non una costante della storia italiana. Nonostante la grande ammirazione per la genialità di Longanesi, in forza dell’avversione di Pannunzio verso qualsiasi forma di totalitarismo, di destra quanto di sinistra, il loro rapporto finì per arenarsi su un binario morto. A far da paciere tra i due intervenne Indro Montanelli, il quale raccontò di aver «sofferto moltissimo per la rottura fra Longanesi e Pannunzio» e per questo cercò di combinare, con successo, un “incontro fortuito” (come lo definì lui stesso) tra i due. Nonostante l’imbarazzo iniziale, alla fine la conversazione prese piede e la frattura fu sanata. Dopo pochi giorni Longanesi morì. Montanelli racconta che Pannunzio gli telefonò dicendogli: «Volevo ringraziarti per l’altra sera; meno male che mi sono riconciliato con lui prima che morisse».
Un esperimento giornalistico in pieno conflitto mondiale
Nel settembre del 1943, all’indomani dell’armistizio di Cassibile, un gruppetto di giornalisti di valore, tra i quali figuravano Vittorio Zincone, Sandro De Feo, Giovanni Comisso, Arrigo Benedetti, Paolo Monelli, Vitaliano Brancati e Luigi Barzini jr, affiancarono Pannunzio nell’avventura di Risorgimento liberale, la testata fondata e diretta clandestinamente dal giornalista lucchese. Un giornale che si rivolgeva idealmente a laburisti, cattolici e repubblicani, ossia a quelle forze di sinistra che Pannunzio considerava come interlocutori privilegiati, e che nel tempo divenne l’organo ufficiale del Partito liberale italiano. La parola d’ordine in redazione era “terzismo”: vigeva cioè una volontà di posizionarsi tra opposti schieramenti come una sorta di partito di centro, mediatore tra destra e sinistra. L’intento era temerario: dare un nuovo orientamento alla direzione politica dello Stato. La strada del successo fu ostacolata dal Pci che non perdonava a Pannunzio l’equiparazione del comunismo al fascismo in quanto frutto, entrambi, nella visione pannunziana, di ideologie totalitarie. Inoltre egli rifiutava di concedere alla leadership comunista il monopolio della rappresentanza antifascista. Per questo motivo Risorgimento liberale, prima di chiudere definitivamente i battenti nel 1948, vedrà le sue copie bruciate e le sue sedi assaltate e date alle fiamme a causa delle inchieste sui massacri in Emilia, compiuti dalle brigate partigiane “rosse” che colpirono non solo i fascisti, ma anche tutti quei partigiani che non si riconoscevano nell’ideologia marxista.
Il “figlio” prediletto: Il Mondo
Quando uscì il primo numero del Mondo, il 19 febbraio del
Salvatore De Mauro
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 53, gennaio 2012)