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Anno V, n. 51, novembre 2011
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Comunicazione e Sociologia (a cura di Alba Terranova) . Anno V, n. 51, novembre 2011

Zoom immagine La crisi economica globale
strangola uomini e imprese:
un altro mondo è possibile?
Regolare e ridistribuire

di Daniela Malagnino
Riconsiderare le regole del mercato
senza lo sfruttamento. Da Pellegrini


La crisi economica mondiale che ormai dal 2008 attanaglia i mercati internazionali e le vite dei cittadini induce a riflettere sulle profonde e reali cause che hanno portato alla difficile situazione attuale e costringe inevitabilmente a ripensare al concetto di “benessere economico” al di là di considerazioni spicciole ed egoistiche.

Il saggio di Felice Lopresto, scorrevole nella sua esposizione e ricco di numerosi riferimenti bibliografici, affronta tematiche diverse: da quella del lavoro a quella del mercato, dal ruolo delle multinazionali alle disuguaglianze sociali ed economiche nel mondo, dalla scalata economica della Cina alla recessione statunitense degli ultimi anni, lasciando intravedere possibili spiragli per la creazione di un benessere che non sia solo per pochi.

Il libro, Le regole del mercato senza regole (Luigi Pellegrini editore, pp. 240, € 18,00), guida a un’attenta analisi sugli «squilibri generati dal processo economico che si affida ciecamente alle virtù del mercato», e sollecita a valutare il legame tra la crisi economica mondiale e le disuguaglianze economiche della nostra società: «la crisi è il prezzo della cupidigia […] è il risultato dell’avidità, della ricerca senza freni del profitto, del disprezzo per la dignità delle persone e dei diritti dei lavoratori».

 

Il lavoro e le regole di mercato

Il mercato, secondo la voce dell’autore, determina scelte e comportamenti economici, senza tener conto delle ricadute che possono avere sulle persone. Libero dai vincoli e condizionamenti di una politica troppo ingerente, dovrebbe assicurare sviluppo e ricchezza, ma la realtà è un’altra. Il lavoro «subisce la pena di dovere sottostare alle regole del mercato» e pertanto deve essere flessibile, piegarsi alle esigenze di un’impresa e avere un costo il più possibile contenuto (questo, si sa, spiega il fenomeno oramai largamente diffuso della scelta di aziende occidentali di delocalizzare in paesi dove il costo del lavoro è decisamente esiguo). Secondo l’autore «l’insistenza sulla produttività (a cui si punta attraverso il lavoro flessibile e scarsamente retribuito) maschera l’ossessione del capitale», pertanto la preoccupazione maggiore per le aziende è quella di produrre di più, nel minor tempo possibile, per essere competitive sul mercato anche se questo comporta la mancata tutela dei diritti dei lavoratori.

Dall’analisi proposta da Lopresto il lavoro non è più una realtà che permette all’uomo di realizzare una parte di sé e di contribuire alla crescita personale e della società in cui vive, ma è diventato uno strumento di mercato che non accetta di “essere disciplinato”, arrogandosi il diritto di dettare regole (in primis al lavoro stesso).

 

Squilibri economici e povertà

Il modello economico di sviluppo attualmente in auge ha causato l’allargamento del divario tra i paesi ricchi e quelli sottosviluppati e la crescita delle disuguaglianze anche all’interno dei paesi industrializzati. Molte multinazionali (il cui numero complessivo è circa 79.000) sono spesso responsabili di un vero e proprio sfruttamento verso le popolazioni più indigenti (si pensi alla scelta attuata dalle multinazionali di usare luoghi quali Indonesia, Cina, Messico, Vietnam, Filippine per la fabbricazione di giocattoli, scarpe o capi di abbigliamento, apparecchi elettronici e persino automobili); esse «guidano l’economia attraverso una presenza sempre più ramificata e consolidata, attuano strategie di tipo strutturale, fatte di fusioni, incorporazioni e sinergie di imprese. Sfruttano, inoltre, le differenze tra gli ordinamenti giuridici dei vari paesi e scelgono quello più conveniente per i loro affari».

La ricchezza si è concentrata in modo spropositato nelle fasce più alte della popolazione; così nel 2000 il reddito dei più ricchi è stato ottantadue volte maggiore rispetto a quello dei più poveri il cui numero negli ultimi dieci anni è cresciuto di quasi cento milioni (mentre il numero di persone che muoiono di fame, secondo la Fao, ha raggiunto il livello più alto da quarant’anni). La povertà oggi riguarda ampi strati della popolazione ed è dovuta a diversi fattori (aumento dei prezzi, erosione dei salari, calo della produttività) ed è presente non solo nelle popolazioni che riversano in una condizione di miseria, ma anche nelle società del “benessere”.

 

Possibili spiragli

Dinanzi a uno scenario tutt’altro che rassicurante, l’autore intravede possibili soluzioni; riflette sulla necessità, quanto mai urgente, di frenare la liberalizzazione dei mercati o quanto meno di disciplinarla, poiché essa «comporta l’eliminazione delle regole introdotte per controllare il deflusso e l’afflusso di capitali vaganti da e nel paese, e orienta movimenti di denaro verso forme speculative e non verso investimenti, come costruire fabbriche o creare posti di lavoro». A tal proposito l’autore fa notare come molti paesi dell’America latina (Venezuela, Bolivia, Paraguay e Argentina), che per primi hanno sperimentato i danni del liberismo, negli ultimi anni hanno effettuato una serie di nazionalizzazioni per non essere più soggetti al potere delle corporations e hanno ripiegato sulla formazione di cooperative (Chavez, ad esempio, in Venezuela ha concesso proprio alle cooperative appalti governativi e incentivi economici per commerciare con loro).

Secondo l’autore, inoltre, non vi è altro rimedio possibile per vincere la povertà se non quello di ridistribuire la ricchezza: «Questo presuppone una concezione dell’economia che consenta l’equa distribuzione delle risorse e risponda alla coscienza dell’interdipendenza economica e politica, che unisce i popoli tra loro e li fa sentire legati a un comune destino». Una reale ed effettiva cooperazione tra gli stati e l’equa distribuzione dei guadagni potrebbero eliminare le distorsioni che nei secoli si sono perpetrate: «Una via possibile per raggiungere questo obiettivo è quella delle intese globali, in materia di accordi commerciali, programmi sanitari, scambi formativi, diffusione delle informazioni sui risultati della ricerca». Tale cooperazione tra gli stati dovrebbe essere sostenuta dall’iniziativa di organismi istituzionali e sopranazionali che hanno il dovere di guidare verso una distribuzione giusta e accettabile dei guadagni.

 

Daniela Malagnino

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 51, novembre 2011)

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