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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Moventi ed effetti:
andare oltre la facile
concezione di guerra
etnica e religiosa
di Luca Onesti
Da Infinito edizioni una lucida analisi
il conflitto che afflisse le popolazioni
nella ex Jugoslavia dal 1991 al 1995
Quando si parla qui in Italia, della guerra che ha coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica socialista federale di Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, si ricorre alla spiegazione della “guerra etnica”. L’espressione ricorre nei resoconti giornalistici del tempo e persino nelle ricostruzioni storiche effettuate a più di quindici anni di distanza da quel conflitto. In realtà queste ultime non sono che superficiali, perché in Bosnia hanno convissuto in un clima pacifico diversi gruppi etnici per secoli, e una buona parte delle famiglie bosniache era mista. È da escludere, come principale causa del conflitto, anche quella delle controversie religiose. «Basta fare un giro per Sarajevo per convincersi di queste tesi: in poche centinaia di metri ci si imbatte nella chiesa ortodossa e in quella cattolica, nella sinagoga o nella medresa, nella splendente moschea di Gazi Husrev-beg e, appena poco distante dal centro, nel convento francescano». Queste parole, tratte dall’ultimo libro di Angelo Lallo, Il sentiero dei tulipani (Infinito edizioni, pp. 128, € 12,00), introducono una disamina della guerra jugoslava che spinge lo sguardo verso l’intreccio delle motivazioni, economiche e geopolitiche, dell’esplodere di quel conflitto, e dei sottili strumenti, quelli psichiatrici, che hanno provocato e indotto l’esasperato nazionalismo di cui le fazioni in guerra si sono nutrite.
Psichiatria e nazionalismo
Angelo Lallo, ricercatore storico, offre una prospettiva di lettura nuova e particolarmente feconda per capire ragioni e dinamiche di un conflitto che ha segnato l’inizio dell’epoca successiva alla caduta del muro di Berlino. L’autore conia persino un nuovo termine, “psiconazionalismo”, per spiegare la genesi dell’odio nazionalistico. Nazionalismo su base etnica, che è appunto, secondo questa prospettiva, il risultato di una strategia pianificata, che ha visto filosofi, biologi e psichiatri impegnati nella sua costruzione e propaganda. Lallo fa riferimento in particolare alla figura dello psichiatra Jovan Rašković, l’ideologo della separazione naturale degli uomini e della superiorità del popolo serbo. Grande retore, capace di affascinare le masse, Rašković «nel 1990 teorizzò la pulizia etnica nel libro Luda Zemlja (Una nazione folle) [...], che divenne il manifesto delle teorie delle differenze etniche in Jugoslavia. [...] I concetti di Rašković utilizzano categorie psichiatriche applicate al tessuto sociale/politico, impiegando la psichiatria a supporto teorico/ideologico della pulizia etnica». È di questa ideologia esasperata che si nutrirono i leader politici e i capi militari che portarono alla guerra. Radovan Karadžić ad esempio, presidente del Partito democratico serbo e poi presidente della Repubblica serba, oggi processato per crimini di guerra e genocidio dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja, era uno psichiatra professionista ed era il discepolo più brillante di Rašković.
Le donne bosniache a quindici anni dagli stupri etnici
L’autore si sofferma a spiegare come lo stupro etnico di 50 mila donne sia stato «il frutto di un piano studiato con lo scopo di dimostrare, all’intera comunità musulmana bosniaca, l’incapacità dei componenti maschili di difendere la parte femminile. La strategia perversa consisteva nell’introdurre elementi psicologici per annientare la nazione cui la donna apparteneva». Gli stupri, avvenuti in zone di montagna e nelle campagne, sono stati rimossi dall’immaginario collettivo, confinati nella dimensione privata delle donne che li hanno subiti, come se in definitiva lo stupro etnico fosse una colpa da addebitare a loro. I problemi psicologici e di esclusione dal tessuto sociale di queste donne, ad oggi, non sono stati ancora adeguatamente affrontati.
“I giochi pericolosi di Dayton”: la Bosnia oggi
Ma la serie di problemi e la crisi economica in cui versa oggi la Bosnia-Erzegovina sono completamente ignorati dai media e dalla comunità internazionale. Gli accordi di Dayton, siglati il 21 novembre 1995 con la supervisione di Clinton, Chirac, Kohl, Major e Eltsin, sancirono che la Bosnia-Erzegovina dovesse essere uno strano stato unitario formato dalla Federazione croato-musulmana di Bosnia, dalla Repubblica serba e dal distretto autonomo di Brčko. Accordi che hanno creato una divisione su base etnica, popolazioni omogenee, serbe da una parte e croate e musulmane dall’altra ed hanno dunque, come sostiene lucidamente l’autore, ratificato la pulizia etnica. In un territorio estremamente ricco e in una posizione chiave dal punto di vista geopolitico, risulta chiaro il disegno che sta alla base di quelli che l’autore chiama “I giochi pericolosi di Dayton”. Essi «si sono dispiegati nella spartizione del territorio bosniaco quando si è fatto attenzione ad assegnare alla Repubblica Sprska [Repubblica Serba di Bosnia, Ndr] la parte di territorio ricca di foreste, legname, acqua e del petrolio eventualmente da estrarre. Evidentemente si stava ragionando a lungo termine, per quando le condizioni internazionali avrebbero permesso alla Repubblica Srpska di staccarsi dalla Bosnia con un minimo di autosufficienza economica formalizzando, con un plebiscito di voti, la secessione già scritta nelle pieghe degli accordi».
Angelo Lallo fa riferimento al “Trattato economico-politico” di Baruch Spinoza, quando sostiene che in una guerra della vendetta e dell’odio si ha il dovere, come ricercatori storici o anche giornalisti, di andare più a fondo: «l’idea spinoziana che sono i leader politici e militari a spingere una parte della popolazione a commettere crimini di guerra rimane ancora la più valida ed è una teoria che ha trovato realistica conferma nelle terre balcaniche».
Luca Onesti