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Direttore editoriale: Giovanna Russo
Anno V, n. 51, novembre 2011
Una spinta in azienda e non solo:
come non perdere il self control
di Dino Giovannini
Un saggio accattivante, scritto da Paolo Ghelfi, edito da Città del sole,
arricchito da un denso apparato critico a firma di Dino Giovannini
A breve sarà in libreria L’azienda a spinta. Analisi e proposte per un mondo che si muove a fatica, pubblicato da Città del sole (pp. 176, € 16,00). L’autore del saggio, Paolo Ghelfi – consulente manageriale di Direzione e Organizzazione, nonché docente di corsi e seminari in materia di qualità, problem solving, project management, metodologie e bench marking e fondatore della società “Meta Sas” – analizza una serie di strategie messe in atto in azienda attraverso il metodo della “spinta” per ottenere risultati concreti, evitare gli errori e limitare gli ostacoli.
Vi proponiamo, di seguito, la Prefazione che apre e arricchisce il saggio a firma di Dino Giovannini, professore di Psicologia sociale all’Università di Modena e Reggio Emilia, che ci introduce all’interessante volume di Paolo Ghelfi e che ci aiuta a capire il mondo del lavoro e… piccoli-grandi problemi della vita quotidiana.
La redazione
Prefazione
Come ogni cosa (nel senso latino del termine res), anche questa prefazione ha una sua storia che merita di essere brevemente raccontata con riferimenti agli antecedenti, al contesto e ai personaggi che si sono trovati direttamente coinvolti. Ci si può chiedere infatti come mai sia uno psicologo sociale a scrivere la prefazione di un libro che, a scanso di equivoci e per essere chiari, non è un libro né di psicologia né tanto meno di psicologia sociale.
Il primo personaggio della storia è Paolo Ghelfi, l’autore di questo libro. Ho ricevuto un suo messaggio email (maggio 2010) che mi ha a dir poco sorpreso, poiché l’ultimo contatto con lui risaliva a circa una decina d’anni prima. Ci eravamo conosciuti a fine anni Novanta, complice una Spa in cui lui era responsabile dell’Organizzazione. Non ho mai lavorato con lui, ma alcuni incontri/riunioni in cui ci siamo trovati entrambi coinvolti mi avevano fornito l’immagine di un professionista estremamente preparato e competente, nonché di una persona squisita. La mia sorpresa è aumentata quando ho scoperto che mi chiedeva di scrivere la prefazione a questo suo libro, il che mi ha certamente lusingato, ma creato nel contempo anche delle perplessità in quanto non sono uno psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, dunque esperto solo di risultati di aziende e del loro funzionamento interno.
A onor del vero, devo confessare che non gli ho risposto subito: in ambito universitario i mesi di maggio e giugno, soprattutto per chi tiene i corsi nel secondo semestre come nel mio caso, sono veramente sovraccarichi di impegni. Un viaggio di studio di due settimane negli Usa, programmato per la prima metà di giugno, mi ha inoltre distratto da tutto ciò che non consideravo con priorità elevata. Siccome i rientri sono sempre fortemente condizionati anche dai compiti lavorativi rimasti in sospeso, mi sono trovato a rispondere a una telefonata di Paolo Ghelfi che si sincerava del fatto che avessi ricevuto, oltre un mese prima, il suo messaggio inviato per posta elettronica. Un comportamento di “spinta”, il suo, in linea con il contenuto del libro!
Il secondo personaggio entrato sulla “scena” di questa prefazione è il collega e amico Massimo Bellotto, professore di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università di Verona. Durante le sue vacanze, si è trovato a passare da Lerici ed è venuto a salutarmi nella mia casa al mare. Approfittare della sua expertise per porgli alcune domande sul manoscritto de L’azienda a spinta che stavo giusto leggendo, mettersi a parlare del libro e dei suoi contenuti e fare una specie di brainstorming a due è stato, come si suol dire, un tutt’uno. Sono emersi riferimenti, ad esempio, a Eraclito (filosofo greco del VI secolo a.c.) e alla sua idea che il conflitto sia generativo e che tutte le cose si generino tramite contesa; a Rosenzweig e alla tolleranza alla frustrazione; all’analisi di processo e alla soluzione dei problemi, al locus of control interno ed esterno. Mi è sembrato corretto fare questo riferimento perché ho ovviamente utilizzato alcuni spunti e idee emersi in quella conversazione, e di questo sono grato a Massimo Bellotto.
Innanzitutto, va detto che L’azienda a spinta, personaggio protagonista della storia di questa prefazione, è un libro che fa emergere aspetti scarsamente analizzati circa le azioni messe in atto in azienda (ma anche nella vita di ogni giorno di tutti noi) come “spinta” per ottenere un risultato. È in sostanza un libro che fa riflettere su come far funzionare meglio le cose in azienda, evitando errori e limitando gli ostacoli che causano i problemi. E l’aspetto interessante è che l’autore propone non interventi di problem solving, quanto piuttosto esempi di best practices nei quali si è manifestata l’azione a spinta, a partire da innumerevoli fatti e documenti, tutti rigorosamente reali, presentati via via al lettore nel testo, nonché nei supplementi.
A mio modo di vedere, nelle pagine del libro emergono: la necessità di un atteggiamento proattivo, aspetti che concernono il locus of control interno ed esterno, la proposta di un need persistence, nel senso della necessità di non mollare e di mantenere alta l’attenzione sulla manutenzione di processo più che sulla soluzione del problema. È un approccio che parte dall’assunto che occorre darsi da fare (in azienda come nella vita quotidiana), che non bisogna pensare che le cose vadano avanti da sole, che è importante persistere e non cadere nel tranello di chiedersi di chi è la colpa, che pone attenzione anche sulla gestione della relazione con l’altro.
Sono diverse le domande che possiamo porci per capire meglio le questioni analizzate: chi o che cosa determina che le azioni intraprese da un individuo, singolarmente o come membro di un gruppo, vadano a buon fine? Il fenomeno della spinta è davvero necessario e inevitabile? Le spinte si possono ridurre? La tesi del libro è che «tutto, o almeno troppo di ciò che dovrebbe o potrebbe succedere, poiché “previsto e atteso”, avviene proprio perché spinto, sollecitato, ricordato, ripresentato».
Un aspetto interessante da rilevare è che nell’area delle azioni finalizzate a rimuovere le difficoltà compaiono sostantivi che fanno riferimento ai tratti di personalità, mentre l’area finalizzata a promuovere viene rappresentata quasi esclusivamente da verbi che indicano azioni di intervento su qualcuno. Il richiamo al locus of control interno ed esterno, all’“errore fondamentale di attribuzione” e alla “motivazione intrinseca ed estrinseca” diventa d’obbligo.
In termini psicologici, il locus of control (Loc) rappresenta l’atteggiamento con cui le persone pensano di essere in grado di determinare con impegno, capacità, sforzi le proprie azioni e i relativi risultati (Loc interno), rispetto al fatto di pensare che gli eventi siano determinati da forze esterne, come il caso, la fortuna, persone con potere o gli altri in generale (Loc esterno). Secondo questo modello, le persone si collocano lungo un continuum in base alle loro tendenze per un Loc interno piuttosto che esterno, anche se non sempre quelli con un Loc esterno sottostimano le loro possibilità di controllare gli eventi della vita, così come pure non sempre quelli con un Loc interno pensano di poter controllare tutti gli eventi in cui si trovano coinvolti. La posizione lungo il continuum varia infatti in funzione delle differenze individuali (ad esempio, la personalità del soggetto), delle differenze culturali, delle aspettative maturate, delle circostanze e degli eventi.
Anche la cultura aziendale (ad esempio, nel caso di un’azienda alla ricerca della competitività, con conseguenti richieste di assunzione di responsabilità relative a scelte difficili) gioca un ruolo rilevante nello sviluppare, oppure inibire, la possibilità di assumere una visione del mondo propositiva basata su un Loc interno. In questa ottica ad impronta comportamentista, si sostiene che il Loc esterno generi un circolo vizioso di disorganizzazione e un vissuto permeato da senso di vittimizzazione e impotenza, che degenera in auto-sconfitta. Tale situazione rinforza il Loc esterno, creando un meccanismo perverso di retroazione e perdita di spirito competitivo, che porta il soggetto a rinforzarsi nella convinzione che sapeva già che non ce l’avrebbe fatta e che sarebbe stato meglio se non ci avesse nemmeno provato.
In ogni caso, va sottolineato che pensare di poter controllare gli eventi, rispetto al fatto di ritenere che non si possa esercitare su di essi alcun tipo di controllo, porta a strutturare atteggiamenti e mettere in atto comportamenti diversi con effetti a loro volta differenti sul benessere dell’individuo.
Ogni qual volta si deve ricorrere a “spinte”, è molto probabile che si pensi che ciò che non ha funzionato sia a causa (o “per colpa”) degli altri. Infatti, quando si chiede alle persone di esprimere un giudizio in relazione alle cause di un comportamento altrui, è molto probabile che si corra il rischio di cadere vittima dell’“errore fondamentale di attribuzione”, una tendenza ad inferire tratti di personalità sulla base del comportamento osservato, anche quando quel comportamento potrebbe essere spiegato da fattori situazionali. In altre parole, questo errore si basa sull’attribuzione a cause disposizionali, cioè ad aspetti legati alla personalità, quando il comportamento è messo in atto dagli altri, e sull’attribuzione ad aspetti situazionali, quindi non a caratteristiche personali, quando lo stesso comportamento è messo in atto dall’osservatore. Se, per restare in tema di spinta in azienda, si cerca di identificare la causa di una difficoltà insorta (o di qualcosa che non ha funzionato a dovere), sarà molto probabile che l’errore fondamentale di attribuzione porti un manager a giustificare il proprio insuccesso attribuendolo a variabili esterne (ad esempio, al disinteresse o al menefreghismo dei collaboratori, oppure a variabili organizzative), e a considerare lo stesso insuccesso di un collaboratore come direttamente determinato da fattori legati alle sue capacità e ai suoi aspetti caratteriali (indolenza, superficialità, scarsa motivazione o preparazione). Focalizzare l’attenzione sulla quotidianità in azienda (ma anche sulla vita di ogni giorno), mette in evidenza quanto sia determinante riuscire a rendersi conto di come si caratterizzi il processo di attribuzione di causa circa i comportamenti agiti od osservati, per capire se questi siano determinati o influenzati dal contesto piuttosto che da caratteristiche individuali.
Un accenno, infine, agli aspetti motivazionali. Quando un comportamento è strumentale al conseguimento di un fine esterno, si ha “motivazione estrinseca”, mentre i comportamenti scelti liberamente sono guidati dalla “motivazione intrinseca”. Un comportamento guidato da motivazione estrinseca rivela meno informazioni sulle qualità personali interiori e porta a minore piacere nel metterlo in atto. Il calo della motivazione, in contesti di lavoro all’interno di settori o servizi, porta all’ “inerzia sociale” (social loafing), definita come la tendenza a ridurre i propri sforzi quando si lavora collettivamente, cioè alla tendenza a impegnarsi meno nell’esecuzione di un compito quando il contributo individuale viene “inglobato” nella prestazione complessiva del gruppo, rispetto a quando il contributo per lo stesso compito eseguito dall’individuo è singolarmente ben individuabile. Le cause dell’inerzia sociale sono molteplici e riconducibili alla mancanza di responsabilità personale, al fatto che la performance individuale non venga valutata, al fatto di credere che i propri sforzi non siano importanti per il gruppo o che non si voglia essere sfruttati dal gruppo, alla riduzione dell’attenzione che accompagna l’appartenenza di gruppo.
Tutte queste spiegazioni sono individualistiche e l’inerzia sociale è presente perché l’individuo può “nascondersi nel gruppo”, oppure in quanto la sua attenzione non è rivolta alla performance. L’inerzia sociale viene ridotta e annullata non grazie a ricompense individuali, ma quando si rende saliente un’identità sociale importante per l’individuo (nel nostro caso, quella aziendale) e le ricompense sono date a favore del gruppo nel suo complesso. Pertanto, i fattori che riducono la salienza dell’identità sociale aumentano le probabilità di inerzia sociale in situazioni collettive. Al contrario, quando è saliente l’identità sociale, gli individui si impegnano maggiormente e aumentano la propria produttività al fine di innalzare il valore del proprio gruppo e, quindi, di se stessi. L’aumento della salienza dell’identità sociale e la conseguente riduzione dell’inerzia sociale è determinato da un parallelo incremento nella motivazione intrinseca.
La possibilità di misurare il fenomeno per poterlo governare, nonché il costo dei difetti nei processi aziendali, rappresentato dalle spinte necessarie per evidenziare le difficoltà riscontrate e per rimuoverle, sono ben illustrati dagli esempi numerici, dagli schemi sulle competenze, dalle matrici a doppia entrata, il tutto corredato da riflessioni relative ai processi operativi, dunque, come già sottolineato, in termini di analisi di processo. Le risposte a come operare in azienda per limitare l’influenza negativa delle spinte, in altri termini le indicazioni per dover “spingere meno”, vengono offerte nel libro in modo soft, con riferimenti semplici e chiari agli strumenti e al come fare.
Essendo nel campo della formazione da circa quarant’anni, mi ha molto gratificato quanto l’autore scrive sulla necessità di “formare, poi formare, ancora formare” e sul fatto che la formazione sia uno strumento da considerarsi come una forma di investimento insostituibile per risolvere i problemi anche in azienda. Il messaggio di questo libro è che occorre consapevolezza del fenomeno spinta, chiarezze cognitive su cosa fare, come e quando mettere in atto comportamenti e azioni (che vuol dire attenzione anche all’organizzazione e alla gestione del tempo), analisi di processo, gestione per obiettivi, abilità e competenze nella gestione delle informazioni e della comunicazione interna ed esterna, coinvolgimento. Termine quest’ultimo che richiama almeno due temi che mi stanno particolarmente a cuore: partecipazione e lavoro di gruppo.
Il filosofo Hegel ci ha insegnato che se gli uomini devono interessarsi a una cosa è necessario che possano parteciparvi attivamente. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso si è molto parlato e discusso di partecipazione, associandola ad altri termini quali decentramento, impegno sociale e istituzionale o ad espressioni quali “dimensione dell’impegno”, “modi di partecipare”. I Circoli di qualità, elaborati in Giappone negli anni Cinquanta e introdotti in Occidente negli anni Settanta (finalizzati a migliorare le capacità gestionali e la leadership dei responsabili di un settore aziendale, a creare un ambiente favorevole al miglioramento, ad aumentare la collaborazione tra gli attori di un processo, a trovare soluzioni creative a problemi pratici partendo dal basso dell’organizzazione) ne sono un ulteriore esempio. Il che rimanda alle forme di gestione del potere e della leadership da parte del management aziendale. Ma cosa “spinge” gli individui a partecipare? Certamente l’impressione che ciascuno ha di contare agli occhi degli altri e di se stessi e che energie, tempo, abilità impiegate e spese sostenute siano utili e necessarie. Il valore che un individuo attribuisce a se stesso dipende infatti anche da come e quanto egli viene riconosciuto e differenziato rispetto agli altri, dal fatto di “rendersi visibili” reciprocamente prendendo parte alla organizzazione e gestione delle azioni che caratterizzano la quotidianità lavorativa.
In questa ottica, la partecipazione va molto oltre l’accezione ristretta che la limita a fare ciò che c’è da fare o all’eseguire ciò che di volta in volta viene indicato. Essa definisce una relazione interna al gruppo di lavoro, i cui componenti, pur nella distinzione di ruoli e competenze professionali, si informano, si confrontano, decidono e agiscono in funzione degli obiettivi da raggiungere attraverso il lavoro di gruppo. Il che ci riporta a considerare l’importanza della motivazione intrinseca ed estrinseca e della salienza di un’identità sociale/professionale rilevante per l’individuo.
Dino Giovannini
(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 51, novembre 2011)
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