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Anno V, n. 49, settembre 2011
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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno V, n. 49, settembre 2011

Zoom immagine In attesa dei Mille
Catania cospirava
nei giardini segreti

di Fabio D'Angelo
Da Maimone un quadro dell’identità
siciliana tra patria vegetale e politica


Gli anni che precedono la fondazione dell’Orto botanico universitario di Catania nel 1858 individuano una fase sulla quale agiscono in maniera condizionante, da un lato, la tendenza ippocratica tesa a rimarcare la funzione terapeutica della natura e, dall’altro, il pensiero illuminista. Quest’ultimo, in particolare, in consonanza con la passione bucolica attestata dalla coeva produzione artistica e letteraria, incentiva la creazione di giardini botanici votati alla sperimentazione e alla didattica, nonché, più in generale, l’intensificarsi della ricerca naturalistica in chiave enciclopedico-classificatoria. La scienza botanica, dunque, come inedito angolo prospettico per l’osservazione dei meccanismi politico-culturali attivi in una provincia italiana “remota”, quella catanese, alla vigilia dell’unificazione nazionale: questo l’originalissimo nodo del saggio di Francesca M. Lo Faro – nata a Catania, dottore di ricerca in Storia moderna – dal titolo Le scienze, la politica, la città: la botanica a Catania in età risorgimentale (Maimone, pp. 280, € 24,00).

 

Gli studiosi botanici a Catania e il rapporto con il contesto culturale locale

Partendo da simili premesse suddette valide e rintracciabili in ambito europeo, l’autrice muove alla verifica dello stato degli studi nel campo della botanica in Sicilia – e segnatamente a Catania – prima della creazione dell’Orto botanico, nonché dei rapporti tra gli studiosi siciliani e il contesto ultralocale, per ricavare un’impressione di netta marginalità, di ostinato ancoraggio al livello locale da parte di ricercatori cui veniva imputata la mancanza di rigore scientifico, sui quali pesava «l’eredità di una cultura separata e fortemente ideologizzata». Solo con la creazione della cattedra di Botanica, nel 1788, tale scienza si afferma pienamente a Catania, distinguendosi dalla medicina e dalla farmaceutica. Eppure, persino il più illustre titolare della stessa cattedra, il fondatore del giardino universitario Francesco Tornabene, incarna quei tratti peculiari e fortemente localistici comuni a molti concittadini naturalisti, che avrebbero segnato l’esclusione dei suoi saggi dalla biblioteca dell’Orto botanico palermitano.

Quali siano questi tratti peculiari l’autrice lo dichiara fin nella premessa ai venti capitoli del suo saggio: «una particolare visione antropo-botanica, legata agli echi di una curiosa tradizione magico-superstiziosa», la convinzione «che vi sia un legame – una sorta di fluido, un principio unificante – che concatena e armonizza territorio, persone e piante». Da tale integrazione tra fatti fisici e antropici conseguirebbe quindi, dal momento che l’uomo è frutto dell’ambiente in cui vive, il riconoscimento alle piante autoctone di proprietà benefiche su coloro che abitano nel loro stesso territorio, ma soprattutto l’attribuzione ad esse di un forte carattere identitario. In particolare, l’indole dei catanesi (significata dall’espressione “Genio di Catania” che ricorre spesso negli scritti della prima metà dell’Ottocento) deriverebbe dagli influssi del vulcano, alla luce della dottrina che ammette l’influenza dei fluidi sottili (elettrico, magnetico, calorico, luminoso) sugli organismi viventi. Tale dottrina trova eco nell’opera di diversi naturalisti catanesi del tempo. Tra gli altri, l’autrice cita il caso di Salvatore Portal (benefattore dell’ateneo, cui offrì in dono 12.000 piante), convinto assertore dell’esistenza di un rapporto diretto tra la roccia ferrosa del giacimento scoperto insieme al fratello e la vegetazione circostante.

Al contempo, la connessione tra caratteristiche del territorio, peculiarità delle specie vegetali e paesaggio umano induceva alcuni cultori di botanica a ricercare le tracce di quella connessione anche nel passato, attraverso la pratica delle “erborizzazioni archeologiche”, ossia la raccolta di piante in luoghi di interesse archeologico: prova dell’innestarsi della ricerca su un sostrato ideologico dominato da precisi condizionamenti storico-culturali estranei a interessi propriamente scientifici.

«Facile intuire», osserva Lo Faro, «come tali deduzioni possano sfumare in una corrente di pensiero tesa all’esaltazione delle specificità locali», ritenute non solo diverse, ma addirittura superiori a quelle che vegetano altrove, che invece vengono respinte, come dimostra la richiesta del canonico Mario Coltraro di escludere piante non siciliane dall’erigendo Orto botanico. Altrettanto significativa, in tal senso, è la «reazione xenofoba» alla massiccia importazione di piante dall’estero, avvenuta a seguito dell’allargamento dei mercati nei primi decenni dell’Ottocento, che offre il destro a un’acuta riflessione sull’odierno rapporto tra globalizzazione e localismo, tra alloctonia e autoctonia, tra alterità e identità.

 

Dibattiti politici all’ombra delle piante esotiche

La trattazione trascorre quindi con assoluta naturalezza e stringente consequenzialità dal tema della “patria vegetale” a quello della “patria agognata”, al centro dei fermenti unitari della prima metà del secolo XIX. Sotto tale aspetto l’autrice sottolinea innanzitutto che «la botanica è per antonomasia scienza nazionale in quanto ha contribuito a creare uno spirito unitario mettendo in contatto gli esperti delle varie regioni per il vicendevole scambio di informazioni sugli aspetti allora più dibattuti in campo botanico. [...] Di conseguenza, nei botanici è evidente l’intreccio tra interessi scientifici e politica».

Nell’area catanese, inoltre, l’istanza politica trova ancoraggio nel configurarsi di molti giardini botanici (tra quelli preesistenti all’Orto botanico universitario), non solo come contenitori di materiale utile all’indagine e alla sperimentazione scientifica, ma soprattutto come «luoghi di sociabilità politica». Per il loro valore esemplificativo assumono quindi pregnanza le vicende del chimico Giuseppe Mirone Pasquali (il cui nome è legato al cosiddetto “Botanico Mironeiano”) o quelle di Vincenzo Cordaro Clarenza (personaggio coinvolto nelle vicende rivoluzionarie del 1837 e del 1848) il quale trasformò il suo giardino botanico, celato nella sua dimora nel quartiere Borgo, in un luogo segreto di dibattito politico, dove trovava statuto un certo “sicilianismo” non ancora diluito in una visione nazionale, in un coerente programma politico unitario.

Il concetto politico di “patria” finisce così per collimare con quello scientifico volto all’esaltazione delle specie locali: entrambi eleggono il vessillo dell’identità siciliana a proprio indiscusso simbolo.

Chiude infine il saggio l’immagine della posa della prima pietra dell’Orto botanico universitario: originato dalla volontà di superare un gap evidente rispetto al contesto italiano ed europeo, tale evento, legato alla data del 31 luglio 1858 (giorno del compleanno della regina) ha luogo in realtà in un clima di malcelata insofferenza nei confronti di un governo borbonico ormai prossimo alla caduta.

Come si vede, il saggio di Lo Faro propone una felice sinergia tra i temi del dibattito scientifico sette-ottocentesco e gli avvenimenti più pregnanti della recente storia risorgimentale. Esso ha il merito, inoltre, di vivificare una complessa vicenda locale attraverso costanti rimandi al più esteso contesto internazionale e inserendo, all’interno di una cornice storica definita e a un impianto estremamente rigoroso, un insieme ben congegnato di quadri biografici che, senza venir meno all’intento propriamente scientifico dell’opera, contribuiscono a rendere la trattazione agevole e pienamente fruibile anche da parte di un pubblico di lettori non specialisti.

 

Fabio D’Angelo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 49, settembre 2011)

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