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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno V, n. 46, giugno 2011

Zoom immagine Il dramma in Bosnia:
dalle ceneri dell’odio
etnico fioriscono
speranze di riscatto

di Antonietta Zaccaro
Infinito edizioni pubblica due opere
che trattano le vicende storiche
dalle macerie dello stato jugoslavo


La Bosnia Erzegovina, una delle ex repubbliche della Jugoslavia di Tito, ora in seguito agli accordi di Dayton, che hanno posto fine alla guerra civile, stato federale indipendente, terra teatro di aspre lotte e di una guerra sanguinosa che l’ha sconvolta dal 1991 al 1995, scatenata dal criminale di guerra serbo Slobodan Milosevic in risposta alla secessione bosniaca. Analogamente a quanto sta accadendo in Libia, nacque una coalizione internazionale, con a capo la Nato, che riuscì a far uscire la Bosnia dalla spirale di una guerra fra bosniaci di cultura musulmana e bosniaci serbi, ben presto degenerata in feroce pulizia etnica nei confronti dei musulmani, dando inizio poi a un interminabile dopoguerra, del quale, ancora oggi, a sedici anni dal termine del conflitto, il paese soffre le conseguenze.

A raccontarci gli episodi più bui e il lento e complicato dopoguerra, è Luca Leone, giornalista e saggista, che ama, nonostante tutto, questa terra dilaniata dalla guerra, in due sue opere, interamente dedicate al problema bosniaco: Bosnia Express. Politica, religione, nazionalismo, mafia e povertà in quel che resta della Porta d’Oriente (Infinito edizioni, pp. 160, € 12,00), e Srebrenica. I giorni della vergogna (Infinito edizioni, pp. 160, € 12,00). Nel primo ci racconta un viaggio sul treno che taglia in due il paese, da Sarajevo a Belgrado, ripristinato dopo la fine della guerra, assiso a simbolo della nuova rinascita. Nel secondo ci troviamo nel cuore del conflitto: è il racconto del genocidio, definito dagli studiosi come uno dei più atroci stermini, paragonabile a quello a cui Hitler sottopose il popolo ebraico, avvenuto nella cittadina di Srebrenica, contro i bosniaci di cultura musulmana.

 

Il massacro di Srebrenica

Questa che Luca Leone ci racconta è una delle pagine più oscure della storia del Novecento, che provocò il massacro di oltre 10.000 persone, sepolte in fosse comuni. È lo stesso autore a chiarire le finalità della sua opera: «Srebrenica. I giorni della vergogna nasce dal desiderio di comprendere le cause, lo svolgimento e le conseguenze di un genocidio. Non è un libro che vuole giudicare. Altre sono o sarebbero le sedi proposte.

Non è un libro che intende dividere. Non è un libro che vuole semplicemente gettare le colpe del genocidio su un intero popolo e far passare “l’altro” come vittima. L’obiettivo vero e semplice è, umilmente e attraverso le testimonianze di chi c’era, capire perché e come sia potuto accadere, chi ne sia stato il responsabile e quali ne siano stati gli effetti». L’autore prova a raccontare gli avvenimenti che si susseguirono in quei giorni di luglio del 1995 tramite la voce di chi c’era, di chi, con diversi motivi e con diversi scopi, si trovava nella cittadina di Srebrenica, definita sicura, in quanto area protetta dalle forze dell’Onu dei Paesi Bassi. Troviamo, quindi, in sequenza, le testimonianze di una infermiera, di un giornalista, della gente comune sopravvissuta perché rifugiatasi nella base Onu: ne emerge un quadro agghiacciante della situazione, e, leggendo, vediamo scorrere i volti di centinaia di persone ammassate all’ingresso della base delle Nazioni unite, già al collasso, alla disperata ricerca di rifugio e salvezza. Troviamo gli sguardi umidi di lacrime dei bambini separati dalle loro madri e portati lontano per essere poi uccisi e sepolti nell’ennesima fossa comune, loro che avevano come unica sola colpa quella di professare la fede islamica in una terra dominata da alcuni signori della guerra serbo-ortodossi, processati poi per crimini contro l’umanità dal tribunale dell’Aja.

Le conseguenze per la politica internazionale e per la credibilità dei caschi blu furono disastrose: Srebrenica era inclusa nella safe area e difesa dai militari dei Paesi Bassi, questi irresponsabilmente si fidarono delle garanzie d’incolumità per la popolazione offerte dai Serbi, consegnando di fatto la cittadina nelle mani dei carnefici, Radovan Karadžić e Ratko Mladic, esecutori della pulizia etnica decretata da Slobodan Milosevic. Troppo tardi le forze internazionali decisero di intervenire per porre fine a questo massacro: le contraddizioni e i paradossi in questa vicenda sono molteplici, e l’unica certezza è costituita dalle migliaia di fosse comuni ritrovate nel territorio adiacente la cittadina.

 

Un lungo e lento dopoguerra

La fine di ogni guerra presuppone una rinascita, un dopoguerra, che può portare al boom economico, come fu per l’Italia dopo la Seconda guerra mondiale, oppure, come è avvenuto in Bosnia, ad una lenta risalita, costellata di corruzione mafiosa. Luca Leone compie un viaggio attraverso il paese, su un treno che lo attraversa da Sarajevo a Belgrado: «lo chiamano “rapido” ma in effetti l’aggettivo non si attaglia particolarmente all’Espresso 451. Il vecchio vettore di pace, il treno che il maresciallo Tito aveva voluto per rappresentare l’unione tra le diverse anime della Jugoslavia, sperava di essersi guadagnato il diritto alla pensione. Figuriamoci. […] Il vecchio “rapido” è stato, con la biblioteca di Sarajevo una delle prime vittime materiali dell’esplosione del conflitto bosniaco. […] Da allora, dal 1992, per diciassette anni, quel che del materiale rotabile si è salvato è rimasto a prendere, dopo le bombe, la pioggia e il freddo. Fino alla metà di dicembre del 2009, quando una vecchia motrice sbuffante è tornata a unire – dal punto di vista ferroviario, naturalmente – Sarajevo a Belgrado, impiegando la bellezza di otto ore». È un viaggio che ci porta a conoscere le parti più insolite della Bosnia, non solo dal punto di vista paesaggistico, ma anche, e soprattutto, dal punto di vista sociale e politico.

La prima fermata (Sarajevo) è, a mio parere, quella più esplicativa per meglio comprendere i meccanismi che muovono le fila della nuova Bosnia Erzegovina: una città in fermento, in continuo mutamento, ma che non riesce a trovare una direzione comune da seguire, squassata dall’interno dalle lotte nazionaliste e dalle differenze di credo religioso, dove la mafia investe nel mattone, sperando che prima o poi l’economia ricominci a girare, un settore dove «investi uno, sporco, e ricavi sette, pulito», dove l’agente immobiliare guadagna duemila euro al mese, ma sogna di fare l’insegnante per poter uscire da questo mondo, che arricchisce il conto in banca, ma impoverisce la coscienza; una città che, nonostante tutto, continua a vivere, continua a voler crescere e a voler risollevarsi dalla miseria. Troviamo l’antica biblioteca universitaria, la Vijećnica, un luogo di tutti, cuore pulsante della cultura della città, in lento restauro dal 2008 che «nello sfavillare di nuovi grattacieli […] sembra il cadavere di una vecchia, morta di una brutta malattia, in decomposizione in mezzo al salone delle feste». Assisa a simbolo, non di tutti, ma di una particolare fazione politica, non più identità di un popolo, ma solo di una parte di esso.

Al contrario la ricostruzione dei luoghi di culto è stata rapidissima, «in Bosnia Erzegovina è accaduto – e accade – quel che ha caratterizzato il dopoguerra di molti, se non tutti, Paesi ex socialisti, una volta disgregatosi il corpo dell’impero centrale sovietico: nei nuovi stati, sorti dalle ceneri di quel che c’era prima, la religione è stata individuata da subito dall’intellighenzia arrogatasi le leve del potere come l’elemento di coesione principe per la creazione sia di una identità nazionale sia di una sorta di collante, di coesione nazionale». Si è sacrificata la cultura per assopire le masse con una splendente religione: il fervore della lotta culturale si è trasformato in asservimento a Dio. Ma, nonostante queste contraddizioni Sarajevo e la Bosnia sono ancora capaci di sorprendere l’opinione pubblica internazionale: fa riflettere il fatto che i cittadini finora abbiano preferito al McDonald’s la pita e il ćevapćići, piatti tipici bosniaci. Dalla Bosnia arriva una lezione per il mondo.

 

Antonietta Zaccaro

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 46, giugno 2011)

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