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Anno V, n. 45, maggio 2011
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Letteratura contemporanea (a cura di Francesco Mattia Arcuri) . Anno V, n. 45, maggio 2011

Zoom immagine Sullo sfondo delle Isole Canarie
il recupero del passato comune
attraverso i ricordi personali

di Maria Grazia Franzè
Da Infinito un testo sulla ricerca
di un linguaggio adatto alla memoria


Chi fosse un appassionato di letteratura spagnola e ancora più specificatamente di letteratura canaria, non può non leggere il secondo libro di uno dei più grandi scrittori dell’attuale letteratura spagnola. Dopo la pubblicazione in Spagna di una trentina di volumi, Sabas Martín vede ora la stampa in Italia del suo secondo romanzo (dopo il successo di L’eredità) che, vincitore del Premio “Alfonso Garcìa Ramos”, considerato un grande capolavoro, narra la storia della fondazione di un territorio mitico senza tralasciare le caratteristiche salienti e culturali delle Isole Canarie.

Ancora una volta, giocando con le parole, lo scrittore utilizza l’anagramma del luogo in cui è ambientata la storia, in un titolo non del tutto originale, Nacaria (Infinito, pp. 176, € 12,00) e forse un po’ atteso dai lettori che conoscono lo stile dello scrittore.

 

La lettura e le emozioni che nascono da essa

«Nacaria si legge con la fretta di chi deve prendere un treno. Si legge con l’ansia di chi ruba un bacio per le scale. Ma poi ti invade. Torni, lasci sedimentare un pensiero appena annusato, ti interroghi ossessivamente, ti chiami in causa, lo sogni come una strana lotta con l’angelo». Le parole scritte nell’Introduzione dalla traduttrice, Chiara Vitalone, non solo sono le descrizioni più appropriate del romanzo, ma anche e soprattutto sono l’immagine delle sensazioni che si accendono dalla lettura, perché una storia, prima ancora di essere capita deve far nascere qualcosa nell’animo di chi legge e, questo racconto, è in grado di risvegliare differenti sentimenti riposti nell’animo umano.

E cosa se non meglio delle parole possono assolvere questo straordinario compito? Martín in questo è maestro: non solo perché regala al lettore tutte le immagini che intravede nella sua isola, ma anche perché delle parole, ancora una volta in questo romanzo, ne fa un uso innovativo, come la sua stessa traduttrice scrive: «Il vero scrittore si distingue radicalmente dal mero scrivente perché avverte i limiti della lingua che gli è toccata in sorte nascendo in un certo Paese, in una data cultura. Si sente come in prigione; è di fatto un prigioniero di forme linguistiche che non riescono a esprimere il mondo che porta dentro. Il suo tormento è quello di chi avverte l’urgenza acutissima di creare un linguaggio nuovo, di dare un significato originale e vivo a forme linguistiche ereditate dalla tradizione letteraria e consunte dall’uso». In questa affermazione la traduttrice lascia intravedere non solo l’abilità dello scrittore ma anche il fatto che egli stesso abbia saputo cogliere nei diversi anni le più disparate tendenze letterarie costituendone una nuova, in cui sono giustamente “dosati” elementi culturali e ricordi personali attraverso la musicalità delle parole che indagano la condizione umana.

 

Una storia tanto vera quanto fantastica

Nel romanzo si narra di sogni e speranze ma anche di ricordi: «Ricordo mio nonno che mi parlava della cocciniglia. Allora i suoi occhi prolungavano il letargo dell’orizzonte e a poco a poco si riempivano della nebbia sottile che si trasforma nell’acqua della nostalgia». È Martín che, nel Prologo, regala una breve spiegazione circa la stesura di questo romanzo e, al ricordo familiare susseguono subito le sensazioni che le parole del nonno producevano nell’animo dello scrittore; sensazioni, così importanti, da guidarlo nella scrittura di Nacaria.

«Il nonno mi parlò per la prima volta della cocciniglia sul molo della mia isola placidamente affacciata sull’oceano e sulla scia delle navi. Ricordo il nonno. Ricordo la sua voce lenta. Ricordo i suoi occhi umidi e velati di nebbia. Ricordo i suoi ricordi popolati di magazzini stipati di sacchi pieni del minuscolo e bianco parassita delle pale verdi dei fichi d’India». Ricordi dunque, ricordi sempre più nitidi della terra, delle parole del nonno e del tempo impiegato nella lavorazione della cocciniglia.

«Fu così che immaginai gli sguardi scrutare e addentrarsi nella trama di spine acuminate, tra le rugosità e i frutti sulle pale per accaparrarsi fino all’ultimo puntino bianco. Fu così che le mani impugnarono i ramaioli di metallo per scortecciare le pale verdi, spezzando le spine, raschiando la polpa vegetale. Fu così che si riempirono sacche e bisacce, svuotate poi sulle tavole di legno, dove il bianco parassita frutto del raccolto veniva essiccato al sole prima di essere separato in mucchi su setacci, crivelli e colini. Così si compì il suo destino di materia polverizzata e morta. Crosta di neve rugosa, alla fine la cocciniglia».

 

Gli intimi ricordi condivisibili da tutti

È con il passare degli anni che tra i ricordi di Martín le immagini diventano più vive e e dopo la scoperta delle testimonianze circa la lavorazione della cocciniglia nelle Isole Canarie, lo scrittore è colto da un’amara delusione perché quello che aveva vissuto lui, con il nonno e che conservava gelosamente nei suoi ricordi, era in grado di dare vita all’attività caratterizzante l’isola stessa: «Quello che lessi sui libri, su ampi documenti, era la storia della coltivazione della cocciniglia alle Canarie. Tuttavia, la lettura di fatti, eventi ed episodi del passato insulare, mi lasciò insoddisfatto. Il metro erano le proporzioni dell’ordine, il mero divenire di date e accadimenti. Il suo linguaggio era il linguaggio disadorno della scrittura della Storia».

Questa è la spiegazione che lo scrittore porge prima d’iniziare a scrivere le sue memorie, tanto individuali quanto riscontrabili in ogni abitante dell’isola. Così, raccontando una storia già documentata e raccontata da molti libri, l’autore si mette in ascolto della sua intima essenza e carpisce ciò che l’intimo gli suggerisce: «A partire da quell’insoddisfazione iniziai a immaginare altre parole per lo stesso mondo. O forse, senza che io lo sapessi, furono le stesse parole a scegliermi e indicarmi la loro volontà di pensare lo stesso mondo in modo diverso».

 

Maria Grazia Franzè

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 45, maggio 2011)

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