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Direttore editoriale: Giovanna Russo
Anno V, n. 45, maggio 2011
Una pioggia di morte
dal cielo si abbatte
con feroce violenza
sulla gente di Mileto
di Guglielmo Colombero
Editoriale Progetto 2000 pubblica
una commovente rievocazione storica
della Seconda guerra mondiale
«Chiusa dentro una mandorla di calore soffocante, respirando il fumo di migliaia di candele che ardevano ininterrottamente da due giorni, la folla gemeva. Invocava il santo romeo coi nomi più assurdi e disperati, anelava a una luce che potesse configgersi, come una lanzetta, fin nelle perfunde oscurità dello spirito». Così Giuseppe Occhiato tratteggia con poche, magistrali pennellate espressioniste il fervore popolare attorno al santo patrono di Mileto che, con un’effusione di sudore miracoloso, preannuncia imminenti sciagure. Carlo Emilio Gadda in passato e, più di recente, Andrea Camilleri, hanno innestato nella narrativa italiana il recupero della tradizione dialettale. Il professor Giuseppe Occhiato – scomparso il 31 gennaio 2010 all’età di 76 anni lasciando un vuoto incolmabile nel mondo della cultura calabrese – ha dedicato questa sua cronaca romanzata: Carasace, il giorno che della carne cristiana si fece tonnina (Editoriale Progetto 2000, pp. 288, € 13,00) a uno degli eventi più agghiaccianti dell’ultima guerra in Calabria: l’incursione aerea alleata che il 16 luglio 1943 seminò morte e terrore nelle campagne attorno a Mileto, in località detta appunto Carasace. E lo ha fatto attraverso un audace e originale esperimento linguistico, in cui le espressioni tipiche dell’idioma calabrese si fondono con l’italiano in un amalgama che risulta alla fine comprensibile, in tutta la sua irruenza barocca, anche a chi calabrese non è, ma si sforza comunque di comprendere.
L’amore di un grande studioso per la terra di Calabria
Laureato in Lettere moderne, il professor Giuseppe Occhiato, nato a Mileto nel 1934, si era da tempo stabilito a Firenze, dove aveva concluso la sua carriera di dirigente scolastico. La sua grande passione era l’architettura medievale in Calabria ai tempi della dominazione normanna, e a quell’argomento aveva dedicato una copiosa produzione di saggi e di monografie. I suoi studi sull’abbazia della Santissima Trinità e sulla cattedrale normanna della sua Mileto, distrutte dal terremoto del 1783, rivestono un’importanza fondamentale, riconosciuta a livello europeo. Di pregio assoluto anche altri studi da lui effettuati sulle chiese abbaziali benedettine di Sant’Eufemia e di Bagnara, e sulla cripta della cattedrale di Gerace. Con Editoriale Progetto 2000 aveva pubblicato, fra gli altri: La Trinità di Mileto nel romanico italiano e Ruggero I d’Altavilla: breve profilo di un condottiero. Con Arti Grafiche Abramo, invece, La SS. Trinità di Mileto e l’architettura normanna meridionale, e con Laruffa Le chiese dall’età normanna alle forme rinascimentali. Nel trittico delle sue opere narrative la suggestione dell’impasto linguistico affonda nelle più arcaiche tradizioni calabresi. In Oga magoga: cunto di Rizieri, di Ori e del minatòtaro (romanzo di oltre 1300 pagine, edito ancora da Editoriale Progetto 2000 in quattro volumi: Stilla Farota, Stilla Diana, Stilla Oriana e Stilla Vavara) emergono scorci memorabili come quello che segue, da cui trabocca una veemente sensualità: «Non sapeva, amaro cristiano, che quella era una sculimbra micidiale, calamitosa, che bastava sfiorarla, anzi guardarla una sola volta, rivolgerle la parola, farsi avvolgere dal suo sorriso per rimanerne travolto per sempre, per restarne come avvampato, martoriato di desiderio, pigliato in trappola senza rimedio, intrusciato e incascettato, come il più babbigno dei baccalari, come il più locco dei matalocchi». Lo sdiregno, pubblicato da Rubbettino, il cui titolo significa sfollamento, si sofferma anch’esso sulla tragedia del 16 luglio 1943, lo “scatascio magno” che trasformò quelle povere borgate contadine in un cumulo di macerie e di cadaveri. L’ultima erranza (Iride), infine, narra una vicenda sospesa in un’atmosfera rarefatta, fra questo e l’altro mondo, dove il protagonista è un giovane che non trova pace perché sepolto senza il conforto dei riti funebri. L’anno scorso l’editore Rubbettino ha pubblicato una monografia di Emilio Giordano, I mostri, la guerra, gli eroi. La narrativa di Giuseppe Occhiato, interamente dedicata all’opera letteraria dello studioso calabrese: una lettura indispensabile per chi intenda comprendere a fondo la grandezza di questo scrittore.
Su Mileto si scatena un’apocalisse di schegge e di fuoco
«Sferiche nubi di fumo subito avanzarono in direzione delle case di Milito, salirono dilatandosi e cuvertando in parte il chiarore estremo del giorno. Ferocemente, i due caccia lacerarono quelle cortine. Un fitto crepitio di mitragliatrici passò sulle nostre teste, e felpati lampeggiamenti razzarono attraverso i globi fioccosi del fumo. Come stronata, l’atmosfera vibrava, oscillando. Ognuno si scavò una nicchia di rifugio nella propria angoscia». Profondo indagatore della spontaneità contadina, del fatalismo d’impronta religiosa che impregna la comunità rurale di Mileto, Occhiato s’immedesima totalmente nella gente del posto (in mezzo alla quale ha trascorso gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza), e rappresenta gli eventi con i loro occhi. Gli aerei americani che infieriscono sul paese sono “draghi”, creature mostruose dalle squame d’acciaio che volteggiano nel cielo e poi, calando in picchiata, sputano fuoco addosso agli sciagurati cristiani: «neri draghi e rapinanti gli sembrò che salissero su, ancora, dagli sprofondi della terra, dagli abissali catacumbi del tartaro; saettavano lampeggiando arraggiati, col loro scroscio inturrente saturarono il concavo specchio del cielo che ora veramente pareva sul punto di fendersi per far cadere tutto lo stellato». L’ecatombe inizia in tarda mattinata, quando l’aviazione da caccia americana inizia a spezzonare e a mitragliare una colonna tedesca in marcia lungo la strada statale, e, per errore, si accanisce anche sulla contigua stradina di campagna, sterminando 39 civili inermi, in maggioranza donne e bambini. Una pagina nerissima negli annali alleati della guerra combattuta per liberare il Meridione dai nazifascisti. Una bestiale mattanza che nel linguaggio burocratico dei militari si traduce come “effetto collaterale non voluto di un’operazione bellica”: non sistematica e deliberata, certo, come furono Guernica e Coventry da parte della Luftwaffe (e più tardi Dresda e Tokyo da parte degli alleati, per non parlare dell’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki), ma altrettanto devastante come intensità, se non come entità numerica delle vittime. Gli spezzoni incendiari e le sventagliate di mitraglia bastarono a consumare la strage, anche senza lo sganciamento di bombe di grosso calibro. Furono una decina di cacciamitragliatori, di scorta ai bombardieri che avevano colpito l’aeroporto militare di Mileto, a staccarsi dallo stormo e a puntare verso il tratto che andava dalla stazione all’abitato periferico compreso tra lo Zifò e Contura e lungo le stradelle delle campagne circostanti. Il loro avvicinamento è inquietante come una specie di danza macabra: «Gli aerei procedevano, al solito, in diagonale, con inesorabile lentezza e determinazione. Un’oscura minaccia era racchiusa in quell’apparizione disorientante, nel tenebroso luccichio delle ali e delle fusoliere, nel clangore squarciante dei motori che si propagava a ondate concentriche; e un funesto presagio invadeva e sdilaniava acutamente gli archi dei petti dei cristiani conturesi». Subito dopo, l’atroce sensazione che non esista più alcuna via di scampo sommerge tutti con un’ondata di panico convulso: «La draunara, però, era ormai sul loro capo: li raggiunse, sfracellosa e rabbiosa, con l’inesorabile sicurezza di centrarli, senza sbagliare nemmeno di un nero d’ugna, e di inchiovarli al suolo con lanze di fuoco». E infine esplode il caos terrificante che morde la carne indifesa dei paesani, seguito da un altrettanto spaventoso silenzio di morte: «Le salve delle detonazioni si ripeterono in successione così rapida che si stracangiarono in un trimurto continuo, un rumoreggiamento tonante e saturo che insordava i cieli dal Poro alle plaghe del Mèsima; nel catino occidentale cominciò a formarsi una nuvolaglia di pece, all’interno della quale si accendevano sfolgoranti bagliori purpurei. All’improvviso, un’intensa, cupa deflagrazione scandì due terribili pause, prima e dopo, e i dorsi mostruosamente ribollenti del fumo rosseggiarono di vampate. Doveva essere stato centrato qualcosa di fortemente infiammabile, forse una cisterna di carburante o un deposito di munizioni. Verso quel punto dell’orizzonte, un fungo nero e oleoso s’innalzò tenebrosamente nell’aria; in basso, le membra gibbose della nuvolaglia presero ad allargarsi come spire di draghi, avanzarono fino a lambire i fianchi della collina sulla quale si stendevano le basse case di Milito, invadendo le ficare e le olivare. Quando il rimbombo delle detonazioni cessò, lo stesso silenzio che ne seguì ci sovrastò con l’insopportabile violenza di un tuono».
Ispirandosi all’urlo di dolore che scaturisce da opere d’arte come Guernica di Picasso, Occhiato compone un’atroce panoramica della strage appena avvenuta grazie a una tecnica descrittiva che è pittorica nei colori e fotografica nei dettagli: «Dappertutto, dove era passata la tempesta dragunara, morti ammucchiati, feriti, carogne di animali, sangue, cenere, fumazzi, fetori; e al sangue gentile e sacro dei cristiani si mescitava quello selvaggio del bestiame. Corpi pestati, dilaniati, carni lazzariate, arti spezzati o mutilati, gettati in mezzo alla polvere, sulla terra, sul letame, e sopra sopra sciami ronzanti di scalambri e di mosche tavane che mordevano e strappavano le carni a brandelli. E già le carcasse degli animali e le spoglie dei cristiani si gonfiavano per i veleni della polvere, dove annigricandosi e dove inviolandosi; dagli squarci zampillavano spurghi e liquori, dagli sfoghi delle enormi panzazze venivano fuori ruscelli di marcia che già puzzava». Le raccapriccianti testimonianze dei superstiti descrivono «una donna con la mandibola che le pendeva dalle orecchie», un’altra che aveva «i piedi con i calcagni svolati via, rotti, e le cannelle delle gambe fuori della carne; natiche, non ne aveva più, era tutta accïata, e le si vedevano le viscere di fuori».
Cessa l’incubo e si ritorna lentamente alla vita
L’opera dei soccorritori dopo l’apocalisse è raccontata da Occhiato con forte partecipazione emotiva e con un sentimento di dolorosa pietà che incide a fondo la mente del lettore: «su ogni macchia che scorgevano per terra o sulle pietre, in mezzo alla restuccia, tra i filari delle viti, sulle sipale, ai piedi degli alberi, spargevano puramente manate di calce in polvere, pileggio per impedire che i cani le leccassero e che mosche e lèfide si addobbassero le panzische con quella leccardia arrubinata». Dieci giorni dopo, finalmente, si diffonde la notizia che il re ha fatto arrestare “il cavalier Benito Mussolini”: «fu una novità che scuncassò il mondo; e fu la botta che si prese, e per definitiva, il Minotauro nazionale e, a paro con lui, il mostro che con le sue puzze aveva impestato la terra». E, trascorso ancora un agosto intossicato dall’odore del sangue e della paura, l’epilogo sognato da tutti i calabresi, la liberazione: «L’ingresso degli alleati a Mileto coincise proprio con l’otto di settembre, e avvenne nel pomeriggio. […] Come gli alleati passarono per Mileto, così la popolazione fece ritorno a casa, quasi subito, e il paese si ripopolò di nuovo, finalmente, dopo che per due mesi era rimasto abbandonato e come deserto». E la chiusura di questo libro splendido e terribile è un toccante inno alla speranza: «Sì, in realtà più ricchi eravamo, più impreziositi al di dentro, ché quelle perdite, quei cesinïamenti, quel penìo, ci avevano resi più saldi, ci avevano per così dire affinati, come lame alliffate a mole di patimenti e di chianti; ci avevano rivelato qual era l’esatta misura di noi stessi, della nostra capacità di resistere». Grazie, caro professor Occhiato: anche chi, come me, avrà letto il suo libro, si sentirà arricchito dentro.
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 45, maggio 2011)
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