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Home Page (a cura di Cecilia Rutigliano) . Anno V, n. 45, maggio 2011

Zoom immagine Dio a perdere: la divinità intesa
come duplicazione del proprio io

di Giuseppe Pulvirenti
Giovanni Nebuloni, con Prospettiva editrice, pubblica un romanzo
che coniuga l’azione, gli intrighi e i misteri a una scrittura nuova


A volte capita che il lettore preferisca rifugiarsi nei grandi classici o in testi non propriamente recenti, per tutta una serie di motivi interconnessi tra di loro: la  scrittura più “sostanziosa”, trame non banali e, in generale, una maggiore identificazione con gli scrittori del passato. Ciò accade perché spesso la scrittura contemporanea risulta quasi “usa e getta”, ovvero troppo veloce e poco incisiva. Per quanto riguarda gli scrittori italiani contemporanei, ciò è ancora più vero, perché di autori validi al giorno d’oggi ce ne sono davvero pochi.

Fortunatamente qualche mosca bianca c’è sempre, ed è un piacere scoprire che ad infrangere la “regola” del copia-incolla (ossia questa generazione di autori che sembra scrivere “con lo stampino”) può esservi anche un italiano: in questo caso parliamo di Giovanni Nebuloni, che con il suo quarto romanzo, Dio a perdere (Prospettiva editrice, pp. 242, € 12,00), compie un lavoro impressionante, sia a livello dei testi che per quanto riguarda la trama. Il panorama italiano attuale, quindi, non può che dare il benvenuto a questa ultima fatica dell’autore, che riesce a fondere un linguaggio “moderno” con una prosa sempre avvincente, dai dialoghi pungenti e con una trama ad “orologeria”.

 

Un’introduzione è pur sempre doverosa…

Il romanzo di Nebuloni (ottimamente confezionato da Prospettiva editrice) è preceduto da una interessantissima introduzione di Michele Guendalini, che bene illustra lo scenario attuale della narrativa nostrana e fa sorgere più di uno spunto di riflessione: è giusto scrivere, ed è bello che si scriva delle tematiche più disparate, dall’argomento che sta più a cuore a quello più in voga. Ma è anche vero che, per quanto riguarda la narrazione, abbiamo spesso a che fare con una serie di “autorucoli” che amano definirsi scrittori, che poi – alla fine dei conti – sono uno più uguale dell’altro: si “copia-incollano”, per usare un termine caro all’era in cui viviamo. Troppo e volentieri si è testimoni di una mancanza di novità, di freschezza, di voglia di sperimentare. Più in generale c’è poca volontà a mettersi in gioco con una realtà che superi i confini nazionali, e diventa quindi inevitabile imbattersi in produzioni di autori che si autoclonano. Sì, perché per quanto sia bello riscoprire i classici di una volta o libri scritti comunque in epoca recente, lo è altrettanto poter leggere libri di contemporanei che fanno i conti con la modernità in cui viviamo, e che sono in grado quindi di far confluire nel proprio romanzo influenze provenienti anche da altri media, quali cinema, fumetto, serial tv, ecc., perché nel villaggio globale in cui ci troviamo è impossibile pensare a tutti questi fattori in maniera isolata: bisogna infatti saperli miscelare sapientemente, se si vuol dire appunto qualcosa di nuovo, di diverso.

Ed è proprio quello che Nebuloni fa con Dio a perdere.

 

Un Dio a perdere… sarà il caso di trovarlo?

Daniele Calefi, professore di Mineralogia all’Università di Milano-Bicocca nonché agente segreto dell’Aisi (Agenzia italiana per le informazioni e la sicurezza interna), costantemente spiato dagli stessi colleghi dell’Aisi e dalla Cia perché sospettato di collaborare con terroristi islamici; Paolo Bonera, amorevole padre di famiglia e funzionario dell’Aisi con il compito di spiare Calefi; l’inquieta e poco appariscente Valeria Cavanna, impiegata alla Soprintendenza alle Belle arti; donne arabe che si autodefiniscono jann, un incrocio di angeli e uomini fedeli ad Allah che cercano di convincere Calefi di essere la reincarnazione del tanto atteso Tredicesimo imam; e poi, ancora, grotte ancestrali dai misteriosi poteri, entità biologiche che si evolvono con l’uomo, armi batteriologiche e tanto altro ancora fanno da sfondo ad un romanzo fitto di eventi che coinvolge il lettore senza dargli quasi fiato.

Il comune denominatore dell’intera vicenda è Dio, ma un Dio “diverso” dall’accezione cristiana, islamica, ebraica o induista: «Non potendo fuggire da se stessi, molti si creano una via di fuga duplicando se stessi. Proiettano se stessi in un altrove, su una specie di schermo virtuale e interpretano quella figura, quel sé uscito dal sé, fuggito come un ectoplasma dal sé reale, come Dio. Un essere, un’istanza superiore perché il sé proiettato, Dio, ha consentito al sé reale, l’io, di sdoppiarsi e fuggire. Altrimenti, l’io non sarebbe stato in grado di farlo da solo. Non avrebbe saputo fuggire dal luogo inaccessibile che è il proprio io».

           

Trovare Dio… per trovare se stessi?

Quello che Nebuloni ci suggerisce è un Dio che ha a che fare molto da vicino con l’uomo, quasi fosse un’estensione dell’uomo stesso, un “doppio” dell’uomo – anche qui, come nel precedente Il Disco di Nebra, l’autore torna sull’argomento – capace di una propria “individualità”, differente da quella dell’io che l’ha partorito: «[…] come da sempre era accaduto e come sempre sarebbe accaduto nei millenni a venire, il più importante o l’unico dio per ogni uomo che si rapportava a Dio era stato, era e sarebbe stato sempre lo stesso individuo che credeva nell’idea di un dio. Un dio generato da ogni persona, da ogni “io”, il “dio me stesso”».

In conclusione, Nebuloni in questo romanzo scrive come un vero e proprio fiume in piena, non si stanca e non fa stancare con una storia avvincente, un thriller (ma solo nell’apparenza, dentro c’è molto di più) che nulla ha da invidiare a quelli americani: un thriller esistenziale, dell’anima, perché: «con il credere, in coscienza o no, di avvicinarsi a Dio, lo stesso uomo diventa e si fa dio».

 

Giuseppe Pulvirenti

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 45, maggio 2011)

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