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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Comiche contese provinciali,
sognando una vita migliore
all’insegna del cosmopolitismo
di Paola Zagami
Albatros Il Filo: ricerca di supremazia
tra due paesini in competizione
Locali alla moda, fermento culturale e possibilità di conoscere persone dalle più diverse caratteristiche: questo e molto altro può portare la vita in una grande città. Ma coloro i quali, per motivi assolutamente casuali, non hanno vissuto la realtà dei piccoli paesi si sono persi, di certo, altre differenti esperienze. Sulla scia dei luoghi comuni, si può essere tentati di pensare per esempio alla possibilità di riconoscere volti e nomi di tutta la cittadinanza, di percorrere le strade paesane senza timore di pericoli esterni, di poter discorrere nella piazza con negozianti e ristoratori di fiducia. Un mondo, insomma, sicuro, ingenuo e a tratti maledettamente prevedibile.
La fuga verso il diverso sembra una mossa quasi da manuale per quanto automatica, ma il ritorno con la mente e anche con il cuore a quello che è stato nella piccola realtà di origine, si presenta spesso come un intimo quanto inaspettato bisogno. A questa eventualità fa pensare la lettura di La festa del santo (Albatros Il Filo, pp. 88, € 12,50). Il racconto, incentrato sulle buffe vicende di due paesi antagonisti, è stato scritto da Carlo Simonelli. L’autore, al suo secondo impegno narrativo, è originario di Tropea, ma da molti anni vive in Svizzera dove svolge la professione di insegnante di Educazione fisica e di Italiano.
Proprio le vicende biografiche dell’autore – un meridionale emigrato all’estero – danno la sensazione che parte di quello che è stato romanzato sia frutto di un’esperienza diretta.
La festa del paese come momento di riscossa
Il racconto si snoda attraverso l’incessante rivalità tra i paesini di San Pietro e San Paolo. Un tempo uniti in una sola circoscrizione, i due centri sono adesso accomunati da un viscerale odio reciproco, capace di far impallidire i promotori dei nazionalismi mondiali più agguerriti. L’occasione in grado di acuire questo già forte astio è la festa del paese, che naturalmente cade nello stesso giorno: «Le divisioni, l’orgoglio campanilistico, la politica dell’orticello, non avevano certo favorito lo sviluppo, anzi. La regione era dissanguata da decine d’anni d’emigrazione forzata. Le menti più sveglie erano andate via e rimanevano solo pochi irriducibili, fieri e ostinati, coraggiosi a oltranza che imperterriti cercavano di vivere delle poche risorse. Era rimasto anche chi fruiva dei vantaggi che la società di casta gli elargiva e garantiva. E questi non erano pochi. L’unica cosa che li univa, gli uni e gli altri, era la venerazione dei santi che culminava nella festa annuale del paese».
Evento clou dell’anno, comporta un impressionante dispiego di mezzi e cervelli – non proprio eccelsi – degli amministratori comunali. La sfida più importante consiste nell’accaparrarsi il gruppo musicale più in voga o quantomeno impedire che quest’ultimo intrattenga gli abitanti del paese rivale. Proprio coloro che dovrebbero rappresentare le menti illuminate della comunità paesana diventano così i promotori delle più frivole scaramucce, assodata la totale assenza di impegno nelle questioni di reale utilità pubblica.
Ciò che può suscitare maggiore interesse nelle discussioni tra politici e cittadini si limita ai favoritismi in qualsiasi campo. La più impegnativa promessa da mantenere è quella del posto fisso – meglio se pubblico – che può comportare la mortificazione della propria intelligenza o molto più spesso la sopravvalutazione delle effettive competenze: «Qualche suonatore della banda del paese divenne insegnate di musica. Qualcuno che aveva frequentato l’istituto artistico alle scuole superiori divenne insegnante di storia dell’arte o di educazione artistica. Qualcun altro con in tasca la maturità industriale andò a insegnare educazione tecnica. Ma il culmine si raggiunse con chi andava a insegnare materie che non conosceva affatto. Alcuni insegnavano lingue, latino, italiano, inglese, francese, che non padroneggiavano o non conoscevano, altri insegnavano educazione fisica e lo sport lo avevano visto solo in televisione».
In questa amara condizione sociale, la festa del santo non può che essere il fumo negli occhi per quegli sbandati e ingenui, pronti ad accettare tutto pur di non porsi troppe domande.
I giovani del paese, tra illusioni e speranze
In un contesto mediocre, con picchi di ridicolaggine e paradosso, i giovani provano a contrapporsi alle macchiette in cui si sono trasformati gli adulti. A fare da manovalanza per le frivole ripicche in occasione della festa sono tre ragazzi: Simone, Luca e Mommo. Sonnolenti e ottusi i primi due, arguto e sagace il terzo. E proprio il suo punto di vista diventa quello privilegiato dall’autore. Privo di amici che si prodighino per lui, per una sommetta di denaro aiuta la causa paesana, ma le sue idee, e soprattutto le aspirazioni, sono ben altre. Il posto fisso – capace di far gola a chiunque – è un miraggio, reso però raggiungibile dall’ottimismo di chi crede nelle proprie potenzialità. Le grandi città, da Roma in su, assumono una connotazione quasi esotica ai suoi occhi, dopo essere stato colpito dai vaghi racconti dei temerari che hanno sfidato la sorte e abbandonato il paese: «Forse sarebbe toccato anche a lui un posto sconosciuto ai più e che lui non aveva mai sentito nominare, che andando a cercarlo sulla carta geografica ci volevano delle ore. “Ogni posto è meglio di qui” pensava però poi. “Qui posso sempre tornare quando voglio o quando quella vita non mi piace e non rispecchia le mie aspettative”. E si convinceva che andarsene, anche per un periodo di breve durata, gli sarebbe servito a capire meglio quello che voleva e che poteva fare».
Una riflessione comune da sempre a parecchi giovani indecisi sul proprio domani, che cambiando il proprio contesto pensano di cambiare necessariamente vita.
Paola Zagami
(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 44, aprile 2011)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi