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Anno V, n. 43, marzo 2011
Spazi culturali
postmoderni
di Pasquale Romano
Da Bevivino editore
un saggio critico
sul ruolo del lettore
Ha un suo particolare interesse scrivere un libro contro il libro e contro il suo destinatario in senso forte, il lettore. Oltre l’aspetto paradossale, leggendo con attenzione il saggio di Alberto Abruzzese, perdendosi nella trama ideata, si può riemergere con diverse convinzioni e luoghi comuni in meno e qualche delucidazione in più sul mondo dei prodotti culturali di cui il libro è oggetto, ma spesso anche soggetto.
Saggio critico che non ha avuto la diffusione che meritava ai tempi in cui è uscito e che, possiamo dire, meriterebbe tutt’oggi, Contro l’Occidente (Bevivino, pp. 242, € 20,00) è la riedizione di un testo, pubblicato per la prima volta nel 1996 con il titolo Analfabeti di tutto il mondo uniamoci. Un libro che si rivolge, attraverso una lettura critica sulle politiche culturali, contro il lettore stesso.
Politiche culturali e rapporti di potere: uno spot pubblicitario
Da dove iniziare per mettere in discussione il libro come oggetto/soggetto che ha segnato – con pochi dubbi – le sorti del genere umano?
La chiave di lettura proposta da Abruzzese non è univoca. Il problema, visto all’interno del quadro generale delle politiche culturali, può essere affrontato considerando i rapporti di potere che gestiscono la vita di ognuno di noi. Di tali rapporti, nella sua lunga storia, il libro è stato veicolo; più spesso, i ceti colti e i rappresentanti della cultura ne hanno fatto una strumentalizzazione a discapito della ricchezza della lettura in sé e del suo potenziale comunicativo, del contenuto come rapporto di trasmissione del sapere e di conoscenza di cui il libro come scrittura è stato portatore.
Scrittura, lettura, processi di socializzazione, dinamiche di alfabetizzazione e loro contrario, l’analfabetismo.
La riflessione di Abruzzese prende le mosse da un preciso contesto storico-sociale riferibile al 1996: Berlusconi ha dato vita alla sua corrente politica, è stato messo alla prova di governo e al Parlamento adesso si appresta a salire la coalizione di centrosinistra riunita intorno a Prodi. Muovendo da tali dinamiche e dagli effetti da esse prodotti, Abruzzese sceglie un approccio metodologico interdisciplinare, al confine tra sociologia, mediologia, letteratura, estetica.
L’analisi prodotta è priva di qualsiasi forma di buonismo o di facili risposte ai problemi che solleva; la riflessione dell’autore – ovvero: che senso dare e come cogliere le potenzialità offerte dai nuovi processi della comunicazione, dalle nuove tecnologie, dal cyberspazio per un “uso produttivo” che vada verso un miglioramento della società – inizia con una domanda prettamente “politica”: che tipo di dialogo c’è (o c’è stato) tra la politica e la cultura? La risposta è che questo dialogo ha assunto le forme di “spot pubblicitario”, un rapporto che si è prestato a essere semplice rappresentazione.
Se per questo ha rivelato la mancanza di un sostanziale contenuto perché potesse essere agito all’interno della società, dall’altro lato non ha significato che le distanze tra cultura e azione politica si siano ridotte.
È vero il contrario, semmai: la diminuzione delle distanze tra dimensione prettamente politica e dimensione culturale è stata oggetto di un discorso istituzionale mirato al recupero delle tradizioni. Per la sua attuazione, si è agito affidandosi al volano dei mass media, alle sue logiche produttive e pubblicitarie.
Il sentire politico è diventato sempre più presente nelle abitudini di consumo del cittadino, nei suoi spazi e nei suoi tempi ma, così facendo, ha incrementato il potere d’influenza dell’emittenza sui destinatari.
Da un lato, spiega Abruzzese, il discorso del e sul libro è rimasto ancorato alle tradizionali posizioni intellettuali; dall’altro lato, esso è diventato oggetto di un interesse inevitabilmente legato alle strategie di potere. Il “territorio” simbolico di questa duplice operazione è stato il confine tra informazione televisiva, giornalismo, spettacolo: la loro “combinazione strategica”.
Come rendersi produttivi per la società?
Per alcuni motivi, Contro l’Occidente può sembrare un libro pensato per individuare un “luogo” dove la sensibilità e il desiderio di espressione della gente (un tempo si sarebbe detto la “massa”) possano rendersi produttivi per il sociale. Tra le pagine del saggio di Abruzzese non si trovano facili speranze o prospettive illusorie. A questa tipologia di posizioni l’autore preferisce transitare su idee maggiormente “catastrofiste”; infatti, solo partendo da una profonda negazione – se si vuole, anche in senso nietzschiano – si può giungere a cogliere in pieno le potenzialità dell’innovazione digitale, riuscendo ad abitare il nuovo territorio da essa rivelato e a vivere un nuovo sentire.
Un nuovo territorio: oggi, per i più è divenuto un luogo conosciuto e familiare, un’abitudine nelle pratiche di produzione e consumo d’informazione e cultura.
Luogo dei transiti, il cyberspazio riproduce le esperienze comuni dell’essere umano: dalla costruzione di realtà e saperi sino alla creazione di nuove relazioni interpersonali. Il potenziale politico offerto dai territori delle Reti può essere visto, precisa l’autore, come un uscire fuori dal “delirio dell’Occidente”, il luogo dove propriamente si condensano le strategie di potere delle istituzioni e dei suoi rappresentanti.
Oltre la solidificazione sociale dell’innovazione
Non certo un’azione facile: da fine conoscitore del mondo comunicazione, l’autore ci ricorda come ogni tecnologia, dopo una prima fase molto innovativa, subisce un processo di solidificazione sociale, in cui a perdersi è la fluidità della sperimentazione originaria.
Gli stessi termini “innovazione”, “innovare” rimandano al senso di scrittura, al dominio che di per sé essa promuove.
Le reti digitali e la cibernetica segnano un punto di rottura e di crisi con le precedenti forme del sapere, delle relazioni, dell’essere. Riuscendo a vivere questo punto di crisi resta da chiedersi cosa ci sia in gioco per l’uomo. Non certo la felicità, ma, verosimilmente, la consapevolezza del conflitto d’interessi tra chi detiene il potere e coloro i quali ne sono privi, tra gli scrittori/lettori e gli analfabeti.
Nel confine del cyberspazio, la pagina scritta del libro subisce anch’essa un processo di trasformazione nel suo divenire “ipertesto”; trasformazione che, a ben vedere, era già stato anticipato dalle Avanguardie storiche negli anni ’30 del Novecento, nelle forme d’ibridazione tra scrittura e immagine che produssero nuovi linguaggi. Il loro potenziale espressivo consisteva proprio nelle forme di analfabetismo; linguaggi che entravano sulla scena della cultura al pari di fotografia e cinema, tuttavia ampliando il “patto sociale” tra scrittori e lettori. Un destino per alcune ragioni simile al cinema: nato come mezzo di comunicazione in origine con una forte componente psicosomatica, divenne presto istituzione consolidandosi come spettacolo basato su forme e traduzioni di scritture.
Ricordando le posizioni di alcuni scrittori come ad esempio Ruskin, l’autore invita a vedere nel libro – non più come consolidamento delle strategie di potere dei dominanti e dell’autorità di chi scrive – un oggetto in cui non è andato perso il sostrato magico del racconto o anche della trasmissione della conoscenza, elementi di un sentire che non escludono di cogliere le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie e dagli scenari che esse dischiudono. Un’azione che potrebbe renderci presenti non solo agli altri, ma forse anche a noi stessi.
Pasquale Romano
(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 43, marzo 2011)
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