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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Il muro israeliano
isola la Palestina:
i sogni di un popolo
chiuso nelle Gabbie
di Martina Andronaco
Da Città del sole il racconto doloroso
di tantissime vite sconvolte e distrutte
dall’insensata catastrofe della guerra
«Marwan colpì il pallone con forza e quello volò per aria, Farid gli corse dietro, stava per calciarlo quando volò anche un colpo di fucile. Dal muro un cecchino aveva sparato. Murad e Marwan lo videro cadere a terra nel sangue, corsero verso di lui, pam, un altro colpo. Marwan cadde colpito in pieno. Murad si mise a urlare per la disperazione e la paura, un terzo colpo gli strozzò il grido in gola»… Non c’è gioco, non c’è vita, non c’è logica o ragione. Pura pazzia?... No, puro odio. Un odio che da anni logora la vita del popolo palestinese.
Un odio che alimenta un conflitto che non è religioso, tra ebrei e musulmani o cristiani e viceversa, ma è un conflitto di enormi interessi economici, strategici, imperiali-coloniali di controllo e di dominio. Questo conflitto ha portato alla costruzione di un muro israeliano allo scopo ufficiale di impedire fisicamente ogni intrusione da parte di terroristi palestinesi nel territorio nazionale, trasformando la vita della povera gente in un incubo senza fine.
I racconti inseriti dalla scrittrice, Miriam Marino, in Gabbie (Città del sole, pp. 108, € 6,00) non parlano di politica o di religione ma di dolore, di sofferenza, di disperazione, di gente comune, di famiglie, di donne, uomini e bambini che non hanno nessuna colpa se non quella di essere nati in Palestina. Sono messaggi di pace, di libertà, di giustizia, ma, soprattutto, sono frutto di un sogno, in cui l’autrice vede un mondo senza armi e senza guerre, più giusto e colorato. Insomma un mondo nel quale tutti noi ci riconosciamo, anche se spesso siamo troppo immersi nella nostra vita, nella nostra storia per renderci conto che a poche ore di aereo dal nostro paese regna l’orrore, il terrore, la violenza… L’inumanità.
“C’era una volta…” è così che di solito cominciano le favole. Ma non questa volta…
Nei racconti di Gabbie quello che c’era una volta c’è ancora… La questione israelo-palestinese con il tempo non è cambiata, anzi si complica sempre di più e sembra non avere fine.
L’autrice, Miriam Marino, oltre che scrittrice e artista, è anche attivista per i diritti umani; è impegnata in tre associazioni: Ebrei contro l’occupazione, Amici della Mezza Luna Rossa Palestinese e Stelle Cadenti - Artisti per la pace. Ha pubblicato molti altri libri di grande spessore umano, per citarne alcuni: il romanzo politico Non sparare sul pianista, il piccolo saggio Il misticismo dell’arte contemporanea, le raccolte di poesie sulle donne della Bibbia Madri di Israele e Ruth, e Ingiustizia infinita, raccolta di racconti sul conflitto israelo-palestinese.
La voce di Miriam Marino è la voce di un popolo che non ha più una vita, ma solo una difficile sopravvivenza o meglio una vita prigioniera in una gabbia di dolore e terrore, e che sogna, come protagonista di un film dell’orrore, di poter vedere scorrere i titoli di coda o ancora, come protagonista di una triste favola, sogna di poter avere un lieto fine.
Yousef Salman, delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia: «Abbiamo bisogno di ponti, non di muri»
Dal 2002 Israele sta costruendo un muro lungo il confine della Cisgiordania per impedire ai kamikaze palestinesi di farsi esplodere nelle strade di Gerusalemme o Tel Aviv. Ma la costruzione del muro con la sicurezza c’entra ben poco. È piuttosto una palese operazione politica, un modo per spingere il popolo palestinese sempre più nell’angolo di terra che gli resta, chiudendolo dentro una gabbia a cielo aperto.
«Il muro era lì come una minaccia, si alzava tra gli abitanti del villaggio e la loro vita […] al contrario di quell’altro muro del pianto, questo nelle fenditure non aveva bigliettini di preghiere, ma mitragliatrici e cecchini, perciò conveniva piangere a distanza». Il muro non offre protezione ma lascia fuori i sorrisi, la speranza di una vita che non sia una gabbia: «lacrime e sangue erano già impastate nel cemento e nella terra sotto il muro». Il muro cresce cosi in fretta che non si fa in tempo a passare “dall’altra parte”, dove c’è la propria amata, il proprio padre, la propria libertà.
Questa situazione ha causato un forte aumento della migrazione. «Un albergatore si lamentava delle scarse prenotazioni a causa di tutti quegli sbarchi»: è con queste parole che l’autrice ci spinge a pensare che spesso non andiamo mai oltre la sfera del nostro “io”, non pensiamo che tutti questi migranti, che fuggono dal loro paese, arrivano con le facce sconvolte e il cuore colmo di speranza. Sono padri e madri il cui unico pensiero è quello di dare una vita diversa ai loro figli, diversa dalla morte.
Trovare se stessa nel dolore dell’umanità
«Sono stupita di esistere. Sento di essere invisibile. Di guardare, silenziosa spettatrice, il mondo. Anche quando agisco non sono sicura di aver agito davvero, né di essere stata io a farlo, né di essere esistita o di esistere realmente». Queste suggestive parole di Miriam Marino rimbombano sonoramente nella mente come un suono già sentito. Sì, credo che tutti, per un momento nella vita, abbiamo provato queste sensazioni: quando ti sei sentito sconfitto dalla vita, quando il dolore che stavi provando era troppo forte ed era molto più facile guardarti vivere o guardare vivere, proprio come il Pascal di Pirandello, già… come fuori dalla vita… Sarebbe più facile, ma non può durare a lungo, prima o poi devi ritrovare te stesso, è il tuo essere vivo, fisicamente, che ti spinge a farlo. È quello che fa Miriam Marino: allontanarsi da se stessa e ritrovarsi nel dolore dei suoi fratelli. Dice di essere lei la donna lapidata, il giovane saltato in aria, l’uomo torturato, quel migrante che emerge, con gli occhi atterriti, dalle acque nere che hanno divorato i suoi fratelli… È qui che dice di trovare se stessa: nel dolore dell’umanità universale.
Martina Andronaco
(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 42, febbraio 2011)