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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno V, n. 42, febbraio 2011

Zoom immagine Il Regno di Napoli
nei secoli XV e XVI:
nobili e burocrati

di Fabio D'Angelo
Da Editoriale scientifica, l’evoluzione
dei rapporti di potere tra i due ceti


La società napoletana di antico regime appare configurata come una realtà complessa e al suo interno stratificata, aliena da qualsiasi ipotesi o imputazione di immobilismo e staticità: si tratta di un assunto che ha acquisito ormai dignità di statuto nel panorama storiografico degli ultimi anni, ma che costituisce, al contempo, un punto di partenza imprescindibile per lo storico che intenda procedere alla ricostruzione di dinamiche sociopolitiche di lungo periodo. Il volume Due ceti del Regno di Napoli. “Grandi del Regno” e “Grandi togati” (Editoriale scientifica, pp. XVIII-246, € 22,00) sviluppa precisamente una riflessione su tali dinamiche: l’autrice Rossana Sicilia, dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea dall’antichità all’età contemporanea, sceglie di concentrarsi sullo studio delle due componenti sociali in tal senso più rappresentative, quella legata alla grande feudalità e quella togata, l’una incarnazione del privilegio, l’altra espressione della cultura giuridica, entrambe colte nel loro evolvere in quel lasso temporale che, tra i regni di Alfonso il Magnanimo (secolo XV) e di Filippo II (secolo XVI), fu segnato da un processo di compressione del ruolo politico della prima e di inesorabile avanzamento della seconda.

Nella premessa ai dieci capitoli che compongono il testo, la Sicilia enuclea alcuni concetti basilari che, oltre a fornire la chiave per decodificare eventi e personaggi oggetto della ricerca, anticipano motivi tematici che troveranno ampio sviluppo nel corso della trattazione: l’articolazione della società di antico regime, il concetto di utilità connesso alle funzioni di consilium e auxilium, gli elementi di distinzione della cosiddetta nobiltà di spada rispetto a quella di toga e il loro reciproco carattere di complementarietà.

Dal punto di vista meramente quantitativo, il testo sembra riservare un’attenzione, per così dire, preponderante allo studio della componente togata della società napoletana, protagonista indiscussa, nel periodo considerato, di un graduale processo di inserimento nei gangli della direzione politica dello stato.

 

Il ruolo dei giuristi tra i regni di Alfonso il Magnanimo e Ferdinando il Cattolico

L’autrice muove dall’indagine dei percorsi (di livello universitario) lungo i quali si precisa la formazione dei giuristi e in forza dei quali si definisce l’opportunità per essi di acquisire funzioni politico-istituzionali e sociali tali da connotarli come fluida alternativa alla nobiltà di spada. A queste tematiche sono in parte dedicati i due capitoli iniziali. Se nel primo, dal titolo I dottori in utroque iure: un problema storiografico, Sicilia documenta la vivacità del dibattito storiografico inerente al ruolo dei cosiddetti letrados (i giuristi) nell’ambito dell’amministrazione statale, nel secondo, intitolato Monarchia e istituzioni nell’età del Magnanimo, analizza quel ruolo in relazione a un contesto storico e a uno spazio politico ben precisi, ossia, appunto, quelli legati al regno di Alfonso il Magnanimo: sotto il sovrano aragonese, lo stato assume i caratteri del preassolutismo e il suo apparato istituzionale (Sacro regio consiglio, Camera della sommaria, Tribunale della vicaria, organi periferici), sollecitato dalle istanze riformatrici del monarca, accoglie in larga misura, senza mai escludere la sempre significativa presenza aristocratica, dottori in utroque iure, affidando loro funzioni eterogenee. Proprio la riflessione sulle caratteristiche dello stato preassolutista meridionale di età alfonsina offre all’autrice l’opportunità di proporre una summa dei principali contributi storiografici legati al tema della nascita e dell’evoluzione dello stato moderno: questo il contenuto del terzo capitolo, I togati di Alfonso, nel quale, inoltre, vengono sapientemente tratteggiate alcune figure di togati vicini al Magnanimo. Tra tutte, quella del Panormita, figura esemplare di giurista esperto di affari di governo, rappresentante super partes degli interessi dello stato, capace di impersonare quella funzione di terzietà richiesta dalla sua funzione.

La successione di Ferrante d’Aragona al trono napoletano, cui è dedicato il capitolo successivo, avviene all’insegna non soltanto della continuità dinastica, ma anche di quella politica, come dimostra la scelta di mantenere molti degli uomini di fiducia del Magnanimo nei gangli dell’amministrazione del regno. D’altra parte, il pericolo proveniente dal baronaggio napoletano, autore di rivolte e congiure tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del Quattrocento, giustifica un sempre maggiore controllo del sovrano sulla componente feudale della società: l’autrice non manca, in proposito, di registrare le ripercussioni che tale politica produce sul piano istituzionale e, in particolare, sottolinea il fenomeno del massiccio inserimento di esponenti togati, oltre che negli organi di governo di realtà periferiche come le università demaniali, dove essi rappresentano la longa manus del sovrano, anche negli organi di governo centrali.

Nella congiuntura decennale seguita alla morte di Ferrante, segnata dal reinserimento del regno di Napoli nella compagine della corona aragonese, da cui, per mezzo secolo, era rimasto indipendente, ai giuristi spetta il compito di dare fondamento alla legittimità dinastica del nuovo sovrano, Ferdinando il Cattolico; essi, come in passato, continuano ad affiancare gli aristocratici nel ruolo di consiglieri a latere del monarca e a inserirsi, in forza delle loro competenze e del loro ruolo di garanti della tradizione regnicola napoletana, negli organismi del governo ferdinandeo, non ultimo in quello di nuova formazione rappresentato dal Consiglio del cattolico re. Nel capitolo incentrato su tale fase storica, dal titolo Letrados e “Grandi del Regno”, l’autrice, tuttavia, ribadisce il carattere di complementarietà che il dinamismo del ceto togato presenta rispetto al persistente protagonismo della componente aristocratica e, anzi, documenta alcuni casi concreti di contaminazione tra i due mondi.

 

Il rapporto tra togati e aristocrazia nei regni di Carlo V e Filippo II

La trattazione procede, in stretto ordine cronologico, con l’analisi della svolta impressa dalla politica di Carlo d’Asburgo sul regno napoletano: trascorsi i primi due anni, infatti, egli pone le basi per una riforma delle istituzioni (con la creazione di un nuovo organo, il Consiglio collaterale) che è tale, in definitiva, da connotare sempre più lo stato in senso assolutistico, come uno stato “burocratico-istituzionale”. Al suo interno, i togati vedono accresciuto il proprio ruolo: «da questo momento», infatti, «viene sanzionata e riconosciuta formalmente la loro dignitas di “uomini di Stato”».

Nel settimo capitolo, intitolato Togati: terzietà politica, l’autrice, attingendo alle fonti di età carolina e, in particolare, ai privilegi di nomina, tratteggia con risultati vividi il modello del togato di Carlo V, sottolineando le implicazioni etiche del suo ruolo, il suo obiettivo di difesa e tutela della ragion di stato, la possibilità che egli ha di acquisire un feudo e un titolo baronale, come consacrazione del rapporto di fiducia instaurato con il sovrano.

La razionalizzazione dell’apparato politico-amministrativo perseguita da Carlo trova il suo coronamento nell’istituzione del Consiglio d’Italia, uno dei grandi consejos in cui si articola, nella seconda metà del regno dell’imperatore e nei primi anni di quello del figlio Filippo, la struttura centrale della monarchia. Tale istituzione, nel capitolo intitolato Napoli, Italia e Filippo II, costituisce il pretesto per sviluppare significativi argomenti di interesse storiografico, quali il rapporto tra centro e periferie e i tratti distintivi del regno filippino rispetto a quello paterno. Sotto quest’ultimo aspetto, la studiosa sottolinea come il controllo sui propri domini da parte del sovrano cessi di fondarsi, con Filippo II, sul carattere itinerante della corte e assuma invece come strumento sostanziale l’ampliamento dell’apparato burocratico. Le conseguenze, in ordine al rapporto tra le componenti feudale e togata, come si evince nel capitolo intitolato Burocrati e dottori al servizio di Filippo II, non mancano di rivelare aspetti contraddittori: da una parte, infatti, i togati, sostenuti dalla prassi politica del sovrano, «depotenziano il ruolo dei Grandi del regno nella vita politico-amministrativa del governo napoletano; dall’altra la stessa azione del sovrano alimenta la tendenza all’incremento del valore e del prestigio riconosciuto ai titoli aristocratici, così da costituire una linea di demarcazione tra togati e titolati feudali».

Infine, nel decimo e ultimo capitolo, l’autrice ripercorre le vicende trattate spostando il focus della sua attenzione sui Grandi del regno, con riguardo alle modalità con cui tali figure vengono innovate nel tempo, fino al momento in cui esse si avviano ad assumere le vesti di nobiltà di corte.

Quello della Sicilia è, insomma, un quadro denso e complesso che, a partire da una ricca bibliografia e da un’altrettanta copiosa mole di fonti d’archivio, aggiunge un significativo tassello alle nostre conoscenze sul modo di organizzarsi della società napoletana, a quell’elemento che, come ricorda Aurelio Cernigliaro nella premessa al volume, costituisce «lo “scheletro” del corpo, senza il quale riesce incomprensibile comprendere come esso si sia retto ed abbia serbato vitalità».

 

Fabio D’Angelo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 42, febbraio 2011)

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