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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Rivalutare
la legge Biagi
di Antonietta Zaccaro
Da Rubbettino,
le positività della
discussa riforma
La legge Biagi: dalla teoria alla pratica
Nella maggior parte dei paesi europei è presente, nell’ordinamento lavorativo, il principio di flessibilità, atto a rendere più semplice e più stimolante per il lavoratore il passaggio da un lavoro all’altro: con la legge Biagi, si è tentato di introdurre anche in Italia questo principio. Ma nel nostro paese si è cercato di speculare su questa opportunità offerta al mondo del lavoro. Questa legge non è stata completata e applicata. All’indomani dell’uccisione del professor Biagi, quindi, al suo interno sono state inserite clausole e nuovi indirizzi che lui non aveva previsto e, di conseguenza, la legge della flessibilità lavorativa è stata oggetto di speculazione da parte dei datori di lavoro. Tutti abbiamo sentito parlare di Co.co.co (contratti di collaborazione coordinata e continuativa), e Co.pro. (contratto a progetto), presenti all’interno della legge, ma non abbiamo mai sentito parlare di come effettivamente dovevano essere messi in pratica questi due modelli di flessibilità. Biagi, infatti intendeva dare una «flessibilità del lavoro socialmente sostenibile, che faccia perno sull’integrazione tra rapporti di lavoro temporanei, ma trasparenti e dai contenuti certi, e tutele attive che assicurino, nelle fasi di non impiego e a fronte di un’esplicita e formalizzata responsabilizzazione individuale, continuità di reddito e acquisizione/rafforzamento delle competenze». Impiegata così, la flessibilità esce dal cono d’ombra del precariato per divenire un’opportunità, per imprese e lavoratori, di arricchimento e di crescita. Diventa quindi importante il ruolo delle agenzie per il reclutamento del lavoro, che hanno il compito di rintracciare lavoratori competenti e di qualità per le imprese. Le agenzie esistono in Italia, e in alcune parti del paese lavorano anche bene, e hanno fornito l’opportunità a molti laureati e diplomati di trovare sbocco del mondo lavorativo, seguendo il principio del merito. C’è da dire che «la flessibilità legale e disciplinata ha dato lavoro, ha assicurato reddito, ha alimentato il sistema contributivo e fiscale; in più ha fatto crescere operatori economico-sociali che supportano il sistema economico nazionale». A regolare ancora la flessibilità lavorativa sono nati altri due enti: il Formatemp, che ha erogato formazione di base, e l’Ebitemp, che ha garantito assistenza sanitaria e sindacale a milioni di lavoratori. Dal 2006 opera l’Ebiref, che tutela i lavoratori assunti a tempo determinato e indeterminato. In fondo, se applicata come si dovrebbe, la legge Biagi risulta essere una grande risorsa per il mondo del lavoro e per l’economia dell’Italia, garantendo l’occupazione di sempre nuove menti, pronta a svecchiare il panorama lavorativo italiano.
Il federalismo sindacale
Altro nodo cruciale della legge, e certo al centro del dibattito politico dell’ultimo governo Berlusconi, è il federalismo, tanto agognato dalla forte componente leghista dell'amministrazione statale. Effettivamente, la legge Biagi prevede una sorta di federalismo positivo per il Sud, il cosiddetto “federalismo sindacale”, che darebbe l’opportunità al meridione di autogestire i propri contratti lavorativi, rendendoli consoni al suo Pil, e diminuendo il divario atavico tra Milano e Reggio Calabria. «La gestione mirata di questo livello contrattuale potrebbe dare un concreto sostegno alle imprese nei loro processi di crescita e fare da volano promozionale ai nuovi investimenti, coniugando lo sviluppo economico con la domanda di nuova occupazione e di sostegno dei percorsi di lavoro». Ovviamente il federalismo sindacale deve essere inquadrato in una riforma federalista di più ampio respiro, «che investa le materie già regolate a livello parlamentare e ne coinvolga altre fino ad ora non prese in considerazione». Ma il Meridione non può vivere questa grande svolta con sentimenti di vittimismo, riducendo il tutto all’acquisizione di denaro dalle regioni settentrionali, e alla riesumazione della Cassa del Mezzogiorno: il Sud ha i suoi rappresentanti nelle istituzioni, che potrebbero, se volessero, già da ora proporre l’autonomia finanziaria per promuovere l’imprenditoria e lo sviluppo delle industrie, senza l’appoggio del Nord, e grande aiuto porterebbe il tanto decantato ponte sullo stretto di Messina. I politici del Sud «debbono imparare a pretendere meno soldi e più potere di intervento regolatorio, talvolta per ottenere deroghe di qualche anno nell’applicazione delle normative in materia di libera concorrenza e nella esecuzione di direttive che dettano standard tecnici particolarmente onerosi, talaltra nella formulazione di regolamenti per l’accesso a finanziamenti o a programmi comunitari. Debbono imparare a far le pulci a direttive e regolamenti europei, che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono ispirati dagli interessi degli Stati e delle regioni economicamente più avanzate». In altre parole, il Sud deve trovare la forza per rialzare la testa, per prendere in mano la sua economia e toglierla dalla negatività nella quale si dibatte dall’Unità d’Italia. Il Sud ha le potenzialità per essere in cima alla lista e non, come siamo abituati a vederlo, in fondo, fanalino di coda dell’Italia e dell’Europa.
Il lavoro nero per necessità
In Italia imperversa il lavoro nero, quel tipo di lavoro non riconosciuto, non tutelato, non giustamente retribuito, ma che sempre ricopre la fetta più grande dell’economia italiana. Ma né lo Stato, né i sindacati, riescono a far fronte a questo sconfortante fenomeno: «esibiscono l’uno [lo Stato] inadeguatezza organizzativa, gli altri [i sindacati] mancanza di volontà politica». Lo Stato dispone di forme di contrasto e di controllo non adeguate, i sindacati non lo considerano di loro competenza. «Il lavoro nero, in definitiva, trova alimento in una miscela di furbizia, ignavia, convenienze, bisogni, debolezze istituzionali, diserzioni sindacali, che lo rende inattaccabile ai rimedi di contrasto». I lavoratori in nero non sono visti da nessuno, perché nessuno li vuole vedere. È da ricordare l’azione di contrasto attuata dall’ex Ministro del lavoro, Cesare Damiano, che in un solo anno ha fatto sì che venissero assunti 162mila lavoratori, ma un intervento del genere, seppur encomiabile, non riesce comunque a risanare la piaga del lavoro nero, e certamente è destinato ad essere riassorbito in fretta, se non attuato con regolarità.
Quello di cui ci parla Enzo Mattina, flessibilità sostenibile, sussidiarietà contrattuale, federalismo sindacale, ha come scopo la ricerca di soluzioni che approdino ad un nuovo protagonismo nel mondo del lavoro «nel turbinio di riconversioni-ristrutturazioni economiche, tecnologiche e organizzative, che sono il segno di un divenire con cui tutti i Paesi di antica e recente industrializzazione debbono costantemente fare i conti, attraversando periodi di accelerazione e decelerazione quale quello che stiamo vivendo dalla metà del 2008». Ma io mi chiedo, il Belpaese è pronto per una tale rivoluzione nel mondo lavorativo? La legge Biagi, che si prefigurava come la soluzione ai problemi dell’occupazione in Italia, una volta entrata in vigore, con tutte le polemiche che si è trascinata e si trascina dietro ancora oggi, è miseramente fallita. L’Italia è pronta alla rivoluzione lavorativa?
Antonietta Zaccaro
(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 42, febbraio 2011)