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Anno V, n. 42, febbraio 2011
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Home Page (a cura di Cecilia Rutigliano) . Anno V, n. 42, febbraio 2011

Zoom immagine Lo strapotere della ’ndrangheta
e la sua espansione in “Padania”

di Giuseppe Licandro
In un saggio edito da Rubbettino, Enzo Ciconte denuncia gli affari
della mafia calabrese al Nord Italia e i suoi intrecci con la politica


Nelle ultime pagine de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, il capitano dei carabinieri Bellodi racconta sconsolato a un amico che «la linea della palma [...] viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno. [...] E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma...».

La “linea della palma”, simbolo del sistema politico-mafioso affermatosi in Sicilia nel Secondo dopoguerra, oggi ha varcato i confini nazionali, estendendosi in Europa e negli altri continenti.

Il lungimirante scrittore siciliano non poteva certo prevedere che non sarebbe stata la mafia della sua isola a ramificarsi nel resto della penisola e a metter in piedi un “impero multinazionale”, bensì la sua consorella calabrese, silenziosa e apparentemente più arretrata. La ’ndrangheta da vent’anni a questa parte si è affermata, infatti, come l’organizzazione criminale più forte e pervasiva del mondo (insieme alla mafia russa e a quella cinese).

 

L’operazione “Infinito-Crimine”

Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi saggi che hanno ricostruito la genesi e l’evoluzione della ’ndrangheta, focalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica sulla pericolosa espansione delle ’ndrine nel Centro e nel Nord Italia, che stanno allungando i propri vischiosi tentacoli anche in Australia, Canada, Germania, Russia, Serbia, Spagna, Svizzera, Usa, in molti paesi del Sud America e in altri ancora.

Vanno menzionati, in tal senso, i libri Fratelli di sangue (Pellegrini) e La malapianta (Mondadori) di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Metastasi (Chiarelettere) di Claudio Antonelli e Gianluigi Nuzzi, a cui si possono affiancare diversi scritti di Enzo Ciconte, docente di Storia della criminalità organizzata presso l’Università di Roma Tre, che ha dedicato alla mafia calabrese ’Ndrangheta dall’Unità ad oggi (Laterza), Processo alla ’ndrangheta (Laterza) e Storia criminale (Rubbettino).

Ciconte ha recentemente dato alle stampe il saggio ’Ndrangheta padana (Rubbettino, pp. 224, € 14,00), nel quale si esamina approfonditamente la presenza dei clan calabresi nella Pianura Padana. Lo storico sorianese si attiene alle risultanze dell’indagine giudiziaria, denominata “Infinito-Crimine”, portata avanti dalla Procura della Repubblica di Milano e da quella di Reggio Calabria, coordinata dai magistrati Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone, che ha portato all’arresto di circa 300 persone nel luglio del 2010, svelando un impensabile intreccio di loschi affari tra la malavita e alcuni politici e imprenditori del Nord.

L’autore chiarisce che l’intento del libro, oltre a informare sulle dinamiche dell’inchiesta, è quello di comprendere «attraverso quali canali gli ’ndranghetisti si siano infiltrati e insediati al Nord, diventando interlocutori di primo piano di imprenditori e uomini politici».

Nel mirino degli inquirenti sono finiti personaggi di rilievo, tra cui: Francesco Bertucca, imprenditore edile; Carlo Antonio Chiriaco, direttore sanitario dell’Asl di Pavia; Rocco Coluccio, biologo e industriale; Giuseppe Neri, avvocato e boss della ’ndrangheta lombarda; Antonio Oliverio, ex assessore provinciale milanese dell’Udeur; Pietro Pilello, commercialista e massone; Pietro Trivi, avvocato ed ex assessore comunale di Pavia del Pdl.

Nelle indagini sono stati implicati anche quattro carabinieri di Rho, uno dei quali è stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, ed è emersa, inoltre, la contiguità tra alcuni pregiudicati e vari esponenti politici locali – il deputato Giancarlo Abelli (Pdl), i consiglieri regionali Angelo Ciocca (Lega Nord), Angelo Giammario (Pdl) e Massimo Ponzoni (Pdl), l’ex assessore provinciale di Monza Rosario Perri (Pdl) – che comunque non risultano iscritti nell’elenco degli indagati.

Si può, a ragion veduta, parlare di un’inchiesta giudiziaria rivolta contro la “borghesia mafiosa” e il cosiddetto “terzo livello”, cioè contro le strutture che gestiscono dall’alto le attività criminali, anche se bisognerà attendere l’esito dei processi per stabilire se gli imputati siano realmente colpevoli dei reati ascrittigli.

Si rimane, in ogni caso, stupefatti e sgomenti nel leggere i resoconti delle intercettazioni telefoniche, da cui emerge una diffusa situazione d’illegalità, che distorce completamente le regole della democrazia e del libero commercio, scoraggiando i cittadini onesti, sempre più indifesi di fronte alla criminalità organizzata.

 

L’espansione della ’ndrangheta al Nord

L’arrivo dei primi ’ndranghetisti nella Pianura Padana risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, a seguito di un consistente flusso migratorio di lavoratori calabresi verso le zone industriali del Nord, che indusse a emigrare anche qualche malavitoso.

La presenza mafiosa aumentò sensibilmente negli anni Sessanta, nel momento in cui si decise di imporre a vari boss calabresi e siciliani il soggiorno obbligato in piccoli paesi del Centro-Nord.

Solo negli anni Settanta, tuttavia, la ’ndrangheta cominciò a diventare veramente minacciosa, in concomitanza con l’avvio della stagione dei sequestri di persona.

La Lombardia fu la regione con il più alto numero di rapimenti. Come ricorda Ciconte, infatti, «sono stati 158 i lombardi sequestrati: più dei calabresi, che raggiunsero la cifra di 128, e dei sardi, con 107 sequestri».

La maggior parte degli ostaggi, dopo il pagamento del riscatto, venne rimessa in libertà in Aspromonte, ma alcuni di loro, morti in circostanze drammatiche, non fecero ritorno alle proprie famiglie, nonostante fosse stato corrisposto il compenso in denaro richiesto dai rapitori (Cristina Mazzotti, Augusto Rancilio, Emanuele Riboli, Giovanni Stucchi).

Con i soldi ricavati dai sequestri, la ’ndrangheta è riuscita a inserirsi proficuamente nel commercio internazionale di droga e a moltiplicare enormemente i propri introiti illeciti, per mezzo dei quali ha, successivamente, realizzato investimenti cospicui in attività economiche regolari, sia a Sud che a Nord.

Ecco, dunque, spiegato perché «la presenza ’ndranghetista è diventata più forte e più robusta [...] a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, quando i magistrati milanesi cominciarono a scompaginare le ’ndrine insediate a Milano e in diversi territori della Lombardia».

Oggi, nonostante la repressione messa in atto dalla magistratura, i mafiosi calabresi sono sempre più potenti, al punto da dover ammettere che «intere piazze o porzioni di quartieri di Milano e di altri centri cittadini della Lombardia siano controllati militarmente dalla ’ndrangheta». Con loro devono fare i conti anche le forze politiche radicate nel territorio, come la Lega Nord, la quale, stando alle dichiarazioni di vari pentiti, sarebbe già scesa a patti con le ’ndrine locali.

 

Un’organizzazione moderna e, insieme, tradizionale

Ciconte spiega nel suo saggio che la ’ndrangheta odierna è abbastanza lontana dagli stereotipi del mafioso vecchio stampo («coppola storta e fucile a canne mozze»).

I suoi rampolli non s’impelagano più nelle estorsioni e nei rischiosi traffici di armi e droga, ma «sono laureati, parlano le lingue, [...] sono imprenditori, proprietari di case, bar, ristoranti, pizzerie, imprese edili, di movimento di terra, di facchinaggio; [...] sono nel ramo dei rifiuti, nella grande distribuzione commerciale ed agroalimentare, nel settore del turismo e della sanità».

Nonostante abbia subito un innegabile processo di modernizzazione, la ’ndrangheta rimane, tuttavia, un’organizzazione piuttosto tradizionale, con riti di affiliazione che risalgono all’Ottocento e una complessa struttura piramidale consolidata nel tempo, che comprende una doppia compartimentazione, con una Società maggiore e una Società minore, a loro volta suddivise gerarchicamente in livelli o «doti».

Il primo compartimento presenta tre livelli («picciotto», «camorra» e «sgarro»); il secondo è suddiviso in ben 11 «doti» («santa», «vangelo», «trequartino», «quartino», «padrino», «crociata», «stella», «bartolo», «mammasantissima», «Infinito», «conte Agadino»).

La Società minore corrisponde, più o meno, al cosiddetto «locale», ossia alla struttura territoriale di base, a sua volta costituita dalle varie ’ndrine o cosche, cioè dalle famiglie mafiose che controllano un intero paese o un quartiere di un grosso centro urbano. Il «locale» sceglie al suo interno un «capobastone», affiancato da un «contabile» (gestore dei soldi) e da un «crimine» (organizzatore delle attività criminali).

I «capibastone» entrano a far parte della Società maggiore, la quale si dispiega su tre «mandamenti», cioè le zone d’influenza di una o più cosche, che coprono l’intera provincia di Reggio Calabria.

Dalle recenti indagini condotte dal giudice Pignatone, capo della Procura di Reggio Calabria, è emersa dentro la ’ndrangheta «l’esistenza di un organo al vertice che ne governa gli assetti, assumendo o ratificando le decisioni più importanti».

Quest’organo supremo si chiama «Crimine» o «Provincia» ed elegge periodicamente un «capo crimine», che dal 2009 sarebbe Giuseppe Oppedisano di Rosarno, rappresentante delle cosche della Piana di Gioia Tauro.

La ’ndrangheta, nonostante la struttura piramidale, mantiene un forte assetto decentrato, in quanto ogni «locale» è padrone incontrastato nel proprio territorio: non capita mai che due «locali» si facciano guerra e le faide scoppiano sempre all’interno di una stessa ’ndrina per occuparne i posti di comando.

I legami familiari tra i membri delle cosche sono molto forti e si consolidano anche attraverso matrimoni tra consanguinei: ciò rende piuttosto raro il fenomeno del pentitismo, perché chi sceglie di collaborare con la giustizia deve necessariamente denunciare i suoi parenti più stretti.

 

Tra Reggio Calabria e Milano

La mafia calabrese ha la sua sede storica nella provincia di Reggio Calabria, che, come già accennato, è suddivisa in tre «mandamenti» territoriali, corrispondenti, rispettivamente, al capoluogo reggino, alla zona ionica e a quella tirrenica.

Da diverso tempo, tuttavia, i «locali» sono presenti in tante altre province italiane, in particolare nell’hinterland milanese, dove già negli anni Ottanta è sorta una struttura di coordinamento tra le cosche denominata «Lombardia».

All’inizio del nuovo millennio la ‘ndrangheta padana, su iniziativa del boss Carmelo Novella, ha tentato di realizzare un progetto assai ambizioso: «rendere autonomi i “locali” della Lombardia da quelli calabresi, recidere il cordone ombelicale che li lega alla Calabria, liberarsi da quella sudditanza».

L’esito di questo tentativo, però, è stato infruttuoso e funesto. Il 14 luglio 2008 in un bar di San Vittore Olona due killer hanno assassinato Novella, con un’esecuzione spettacolare, compiuta in pieno giorno e a volto scoperto, che ha assunto un significato esplicito per tutti gli affiliati: «È la restaurazione del potere, che torna ad essere saldamente nelle mani degli ’ndranghetisti rimasti in Calabria».

Il nuovo assetto della «Lombardia» è stato sancito in una riunione dei vertici mafiosi padani, tenutasi a Paderno Dugnano il 31 ottobre 2009 e diventata famosa per due ragioni: la prima, perché si è svolta nel Circolo dell’Associazione ricreativa culturale italiana intitolato a Borsellino e Falcone; la seconda, perché è stata ripresa interamente da una videocamera installata surrettiziamente dalle forze investigative (informate del summit, a tempo debito, da una soffiata).

La riunione, presieduta dal boss Giuseppe Neri, si è conclusa con la nomina di Pasquale Zappia quale «mastro generale» delle cosche milanesi e col rinnovato patto di fedeltà nei confronti della mafia reggina.

Se la ’ndrangheta è riuscita a impossessarsi di un circolo dell’Arci, associazione storicamente avversa alla mafia, significa che la sua capacità d’infiltrazione è diventata notevole e che anche tra i cittadini lombardi sta penetrando «un modo di fare politica accettando voti mafiosi [...] che sta inquinando le istituzioni democratiche».

Gli ’ndranghetisti cercano di allacciare vincoli stretti con esponenti politici sia di destra che di sinistra, senza manifestare una particolare predilezione ideologica, perché la loro strategia «è del tutto strumentale ed indifferente allo scontro politico tra opposti schieramenti nazionali e locali».

 

La mafia imprenditrice e usuraia

I clan lombardi hanno messo le mani su moltissime attività produttive del territorio padano e guardano con crescente interesse all’Expo che vedrà protagonista nel 2015 la città meneghina. Ciconte, a tal proposito, lancia un monito assai allarmante, che ricorda quello a suo tempo lanciato da Pino Arlacchi nei confronti di Cosa nostra: «Non è più la ’ndrangheta che minaccia o si accaparra i subappalti; siamo di fronte [...] alla progressiva integrazione nella cultura mafiosa di meccanismi che appartengono al funzionamento e al regolamento dell’impresa capitalistica».

Grandi aziende come la Cosbau e la Perego strade sono finite nelle mani di Andrea Pavone e Salvatore Strangio, due pericolosi boss, che comunque non sono riusciti a gestirle adeguatamente e le hanno portate al fallimento nel volgere di pochi anni.

Tante industrie entrano di continuo nell’orbita della mafia lombarda, anche perché capita ormai frequentemente che «un imprenditore “padano” si rivolge ad un uomo della ’ndrangheta per risolvere un problema di mercato e di concorrenza».

Questi comportamenti disdicevoli intaccano i principi della libera competizione tra le imprese, di fatto vanificandola: «quello che vale è il monopolio, ottenuto pur che sia, con qualsiasi mezzo».

Uno degli strumenti più utili attraverso cui la ’ndrangheta riesce a impossessarsi di piccole aziende ed esercizi commerciali è l’usura. I boss padani, disponendo di ingenti quantità di denaro liquido, stanno lentamente soppiantando il sistema creditizio legale, fornendo a chi non ha accesso ai prestiti bancari regolari i fondi indispensabili per non andare in rovina. I tassi d’interesse, però, sono talmente esorbitanti da mettere in ginocchio in pochi anni i debitori, costringendoli infine a cedere aziende e negozi ai creditori mafiosi.

La cosca reggina dei Valle, insediatasi a Vigevano alla fine degli anni Settanta, è riuscita tramite i prestiti usurai e le intimidazioni ad accaparrarsi ingenti attività commerciali. L’elenco delle vittime fornito da Ciconte è davvero impressionante: «un orefice di Vigevano, un albergatore e ristoratore di Vermezzo, un artigiano tessile di Biella, un pensionato benestante di Vigevano, costretto a vendere un capannone industriale, un imprenditore nel settore calzaturiero, trascinato e picchiato in casa dei Valle, il titolare di un’agenzia ippica di Vigevano»!

 

Le protezioni occulte e i rimedi possibili

La struttura della ’ndrangheta è ormai chiara alle forze dell’ordine e se ne conosce l’ubicazione nel territorio calabrese. Eppure è difficile sradicare questa potente organizzazione criminale, anche a causa delle protezioni di cui gode in talune “zone grigie” dell’apparato statale.

In merito a questo delicato argomento, Ciconte individua le protezioni occulte della ’ndrangheta in «una rete di uomini dei servizi, della massoneria deviata, della politica, della sanità e dell’affarismo calabrese», riportando l’esempio del commercialista reggino Giovanni Zumbo, collaboratore dei servizi segreti e, insieme, informatore dei mafiosi, che è stato recentemente arrestato per il coinvolgimento nell’intimidazione perpetrata il 21 gennaio 2010, durante la visita a Reggio Calabria del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. In quell’occasione venne rinvenuta nei pressi dell’aeroporto un’automobile imbottita di armi ed esplosivo.

Che ci sia un rapporto tra una parte – malata – delle istituzioni e la criminalità organizzata non c’è dubbio per Ciconte, «altrimenti la forza e l’ampio consenso goduto dalla ’ndrangheta non potrebbe trovare spiegazione», anche se non è del tutto chiaro perché lo Stato non s’impegni fino in fondo nella lotta contro di essa.

Non è semplice, d’altro canto, smantellare una struttura criminale radicata nel territorio, che produce un fatturato annuo pari a circa il 3 per cento del Prodotto interno lordo, in grado di controllare decine di migliaia di voti, capace d’infiltrarsi dentro le stesse istituzioni e, per giunta, dotata di armamenti molto sofisticati!

Ci stanno provando con grande dedizione i magistrati della Procura reggina, che non a caso sono stati oggetto di gravi e ripetute intimidazioni. E della pericolosa pervasività della mafia calabrese si sta finalmente rendendo conto anche il Parlamento, che qualche mese fa ha approvato un disegno di legge, proposto dal Centro studi Lazzati di Lamezia Terme, grazie al quale si è introdotto il divieto per i sorvegliati speciali, appartenenti alla criminalità organizzata, di svolgere campagna elettorale, direttamente o indirettamente, in favore o contro un candidato alle elezioni amministrative, europee e politiche (cfr. in proposito l’articolo Il disegno di legge “Lazzati”, utile mezzo contro “il voto di scambio” pubblicato sul n. 30 di Bottega Scriptamanent, http://www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=767&idedizione=39).

Ciconte, nel chiudere il suo volume, si augura che nelle istituzioni prevalga alla fine «la voglia di non commettere più errori e di bandire connivenze politiche, complicità ed affari in comune con i mafiosi» e che si superi la rassegnazione, «perché rassegnarsi significa dar loro la vittoria e per giunta a tavolino, senza neanche aver ingaggiato il combattimento». Facciamo nostro il suo auspicio, consapevoli, tuttavia, che, stante l’attuale situazione economico-politica italiana, non sarà facile che ciò avvenga in tempi brevi.

 

Giuseppe Licandro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 42, febbraio 2011)
Redazione:
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