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Anno V, n. 41, gennaio 2011
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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno V, n. 41, gennaio 2011

Zoom immagine La dottrina cristiana
nel corso della vita
e dell’attività politica
di Giovanni Gronchi

di Antonietta Zaccaro
Pubblicato da Rubbettino un saggio
che ripercorre l’iter politico del terzo
presidente della Repubblica italiana


Giovanni Gronchi fu il terzo presidente della Repubblica italiana e militante tra le fila della Democrazia cristiana (Dc): ma quali furono gli inizi di questo grande uomo politico che tentò di conciliare la vita politica attiva con la dottrina cristiana, appresa alla scuola di don Sturzo e di Giuseppe Toniolo, e sempre in aspra contrapposizione con De Gasperi? È questa la domanda che si pone Maurizio Serio, ricercatore e docente di Sociologia dei fenomeni politici all’Università “Guglielmo Marconi” di Roma, nel suo saggio Il mito della democrazia sociale. Giovanni Gronchi e la cultura politica dei cattolici italiani (1902-1955) (Rubbettino, pp. 180, € 10,00). È lo stesso autore a descrivere in poche e concise righe la figura di Gronchi: «Giovanni Gronchi, il primo presidente della Repubblica cattolico, eletto in piena guerra fredda anche con i voti di una sinistra di fatto impedita – per la conventio ad excludendum  – all’accesso alla stanza dei bottoni, ed eletto nonostante l’opposizione della Segreteria del suo stesso partito, la Democrazia cristiana».

 

1902-1941: la formazione

Nei primi anni della formazione del giovane Gronchi operano due figure importanti nel mondo cattolico di fine Ottocento: papa Leone XIII e il cardinale Maffi. Il primo, portavoce del cattolicesimo sociale, è «fautore di una cristianizzazione “dal basso” della società che arrivi a permeare indirettamente le istituzioni liberali, in un modo in cui la Chiesa non può più influire come prima sui capi degli Stati. Pertanto, ogni paese vedrà sorgere le proprie organizzazioni cattoliche». Questi insegnamenti furono canonizzati poi dall’economista Giuseppe Toniolo, dalla sua cattedra all’Università di Pisa. Il secondo è il fondatore del movimento cattolico pisano al quale il giovane Gronchi aderisce, con l’intento di porre la dottrina sociale della Chiesa cattolica all’interno del dibattito politico nazionale e la volontà di perseguire il bene comune come ultimo fine. Effettivamente i sui maestri furono da una parte il cardinale Maffi e dall’altra Giovanni Toniolo. Per l’economista pisano la democrazia è: «quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio della classi inferiori. […] Inoltre, l’ordine democratico impone a tutti di tendere al bene comune» (la dichiarazione di Toniolo va inserita nel contesto storico dell’Unità d’Italia, agli albori cioè del cammino di avvicinamento del Paese alle grandi democrazie occidentali). Appunto è il concetto del bene comune a far muovere i primi passi in politica al futuro presidente della Repubblica, che si fa portavoce del cattolicesimo sociale – una nuova forma di intendere la politica – aprendo le porte dei palazzi romani del potere ai cattolici. In un primo momento Gronchi aderisce al Ppi (Partito popolare italiano), nella sede pisana, sotto il beneplacito del cardinale Maffi, e proprio al seguito del partito gira la Toscana, in occasione delle elezioni del 1919, portando avanti il suo ideale di rinnovamento sociale incentrato sul bene comune. Egli rimane sempre attaccato al suo elettorato provinciale, prima come presidente della giunta provinciale del partito e difensore del cittadino della Val d’Era, poi, due anni più tardi (1921) come rappresentante della circoscrizione Pisa-Livorno-Lucca-Massa alle elezioni politiche che vedono il Ppi affermarsi come terza forza al seguito del socialisti e del Blocco nazionalista, al cui interno vi erano anche i fascisti (Gronchi viene eletto con trentaseimila voti). Nel 1922, divenuto capogruppo del Ppi alla Camera, Gronchi si scaglia contro il governo Facta, del quale avvertiva la profonda lontananza dai suoi ideali di democrazia sociale. Dopodiché il 30 ottobre 1922 accetta l’incarico di sottosegretario al Ministero dell’Industria e del Lavoro nel primo gabinetto Mussolini, sorto dopo la marcia su Roma, chiamato in carica dal capo del governo in qualità di rappresentante dei sindacati cattolici. Dopo la presa di distanza dal governo operata dal Congresso del Ppi alla metà di aprile del 1923, Gronchi e gli altri popolari sono allontanati dal governo per decisione dello stesso Mussolini. Ma poco dopo Gronchi e il suo partito si trova a fronteggiare il «fondamentale problema»: conciliare l’inarrestabile ascesa del fascismo con una evoluzione costituzionale, senza far degenerare la crisi in un colpo di stato. Ma come fare? Gronchi propone: «tenendo sempre presenti alcuni fra quelli che la scienza politica avrebbe chiamato in seguito “universali procedurali” (la libera discussione parlamentare, la divisione dei poteri, la questione dei diritti delle minoranze)». Ma ormai il gruppo parlamentare del Ppi si è spaccato, la riforma elettorale Acerbo, che prevede una forte maggioranza per il partito di maggioranza relativa, viene accettata e «con 39 seggi, ovvero un terzo di quelli posseduti nella passata legislatura, i popolari perdono il ruolo di centro di fulcro della maggioranza parlamentare e divengono il primo partito di minoranza».  Tuttavia Gronchi riesce ad essere rieletto, dopo una campagna elettorale difficile a cause delle aspre contestazioni fasciste. È proprio contro Mussolini che si scaglia durante una interrogazione parlamentare nelle quale denuncia «la tendenza rigidamente centralizzatrice dello stato, in campo politico, amministrativo e sociale. Egli accusa il governo di collusione con i potentati economici e di risolvere il conflitto tra capitale e lavoro sempre a spese del secondo». È così che Mussolini riesce a far dichiarare decaduto dal parlamento Gronchi come gli altri aventiniani, ma non a mandarlo in esilio in quanto un decreto del governo fascista risparmia da questa condanna e da sanzioni molto dure i decorati di guerra come lui. Allora Gronchi intraprende un’autonoma attività di rappresentante di prodotti industriali, mantenendo i contatti con gli amici popolari e recandosi negli Stati Uniti, dove prende contatto con la diaspora italiana.

 

1941-1947: nasce la Democrazia cristiana

Con l’ascesa al potere del governo fascista, viene sciolto il Ppi e le figure politiche legate ad esso divengono oggetto di varie persecuzioni. Alcuni sono costretti all’esilio, come don Sturzo e Luigi Ferrari, altri, come De Gasperi, vengono sottoposti a persecuzioni e regimi carcerari. Importante, per inquadrare meglio il pensiero gronchiano post fascista, è l’attività che don Sturzo compie durante l’esilio, che ha come obiettivo il superamento del Fascismo. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale si viene a creare un nuovo fremito di idee all’interno del vecchio Ppi, che inizia a portare avanti un’attività politica clandestina, che vede la partecipazione di una nuova generazione di politici cattolici che non ha vissuto l’esperienza del popolarismo. Proprio per questo, quando c’è da decidere il nome del nuovo movimento politico, non si opta per riproporre quello di Partito popolare italiano e, nonostante le titubanze di De Gasperi, nuovo leader, si accetta il nome di “Democrazia cristiana”. A Gronchi non può non piacere questa nuova denominazione che riprende il filone ideologico della prima democrazia di Murri.  Proprio nell’elaborazione del programma il politico di Pontedera si vede impegnato in prima linea «nel tentativo di dare un contenuto sostanziale alla nuova democrazia proposta dai cattolici finalmente “ritrovati”». Il primo documento della stagione di clandestinità sono le Linee di ricostruzione, rese pubbliche nel marzo del 1943, nel quale si presenta una alternativa economica e sociale al Fascismo. È ora che inizia la cosiddetta “seconda vita politica” di Gronchi. Il suo esordio è fissato al 9 settembre 1943, «con la fondazione a Roma del Comitato centrale di liberazione nazionale (Cln), presieduto da Ivanoe Bonomi e composto da membri delle opposizioni antifasciste: liberali, socialisti, comunisti e democristiani, rappresentati da De Gasperi e appunto da Gronchi». Il 16 ottobre dello stesso anno il politico di Pontedera stila un ordine del giorno del tutto nazionalista che non vede la possibilità di una unità nazionale sotto la guida del re e di Badoglio. Gronchi guadagna consensi al di fuori del partito, specie con le correnti di sinistra schierate per la Repubblica, a preludio di quello che poi sarà il sodalizio che porterà Gronchi a vestire la massima carica dello stato. All’interno del partito egli viene chiamato ad occuparsi del Comitato centrale della Dc, e dopo l’8 settembre viene nominato a capo della Commissione per i problemi industriali; non è un caso che nel primo governo Bonomi (18 giugno-10 dicembre 1944) egli venga chiamato a ricoprire la carica di ministro dell’Industria, del Commercio e del Lavoro, conservandola anche nel secondo governo Bonomi (12 dicembre-19 giugno 1945). Dal suo posto privilegiato è il primo a rendersi conto in che stato di degrado siano le industrie italiane dopo il disastro bellico, indicendo un censimento di tutti i macchinari industriali presenti sul territorio italico. La carica di ministro dell’Industria la conserva anche nel governo Parri (21 giugno-8 dicembre 1945), sebbene «il suo dicastero venga amputato della delega al Lavoro (affidato ai socialisti) e minacciato nelle sue competenze della istituzione del Ministero per la Ricostruzione (assegnato al demolaburista Meuccio Ruini)». Riprende la sua carica di ministro dell’Industria e del Commercio nel primo governo De Gasperi (10 dicembre-1 luglio 1946). Lascerà la sua carica quando verrà eletto successivamente tra le fila dell’Assemblea costituente con oltre quarantacinquemila voti, diventando anche capogruppo dei deputati democristiani per la sua grande esperienza parlamentare, questo «gli consente di avere le mani libere nella formulazione degli orientamenti di governo, in funzione di stimolo critico alla sua azione». Ma il momento cruciale nella vita politica del Gronchi si ha nel maggio 1947: siamo durante il secondo governo De Gasperi (13 luglio-2 febbraio 1947), il capo di governo è appena ritornato dal suo primo viaggio negli Stati Uniti, in Italia vi è la scissione tra il Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) di Saragat e il Partito socialista italiano (Psi) di Nenni; approfittando di questo momento di rimescolamento, De Gasperi annuncia la crisi del suo secondo governo «con l’intento di rimarcare il valore politico della scissione e indebolire il fronte delle Sinistre». Tutto ciò porta il presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, a riaffidare al politico trentino il mandato per il suo terzo governo. Ciò suscita il malumore delle forze conservatrici e liberali, la Dc perde la direzione economica, che passa in mano alla sinistra. Durante il Consiglio nazionale della Dc Gronchi si scaglia contro le scelte operate da De Gasperi, proponendo al partito di abbandonare la presidenza del governo per avere, di contro, la direzione economica. Ciò però non incontra il favore del politico trentino che prefigura un governo tripartito con a capo i democristiani. Gronchi vota a sfavore della mozione degasperiana, e quest’ultimo è costretto a presentare a De Nicola un governo (il quarto governo De Gasperi) monocolore, a matrice interamente democristiana (il primo senza l’alleanza con il Partito comunista italiano - Pci), nel quale il fattore economico è assegnato a personalità di credo conservatore e liberale. In questo contesto si inserisce la proposta gronchiana di aggiungere un emendamento all’articolo 43 dello schema della Costituzione, «che sancisca come principio fondamentale dell’attività economica la “preminenza del lavoro”».

 

1948-1955: verso la presidenza della Repubblica

Con la vittoria della Democrazia cristiana alle elezioni del 1948, Gronchi viene eletto presidente della Camera dei deputati, dopo aver rifiutato la nomina a senatore. L’aver rinunciato a un posto sicuro (quello di senatore) in cambio della Camera (in caso contrario in mano alle opposizioni), gli fa guadagnare consensi tra le fila del partito e degli elettori, che lo porterà ad essere investito della carica di primo presidente dell’Assemblea repubblicana, carica concessagli, oltre che dai suoi colleghi, anche da De Gasperi «combattuto tra la volontà di “normalizzare” la situazione di Gronchi come voce critica all’interno del partito e quella di specificare il disinteresse della Dc per la più influente carica di presidente della Repubblica, salvaguardando in tal modo gli equilibri con gli alleati». Siamo nell’ottobre del 1948, Gronchi si trova a fronteggiare la fine dell’unità sindacale, le associazioni sindacali si sfaldano in favore di un modello federale: «è la fine del sindacalismo bianco e l’abbandono dei suoi riferimenti politici storici quale era lo stesso Gronchi». Egli si trova praticamente isolato, non potendo più fare riferimento al suo ruolo di cardine tra il partito e le organizzazioni sindacali. La sinistra gronchiana inizia a vacillare, riesce, però, a ritrovare un ruolo politico: non rappresenterà più la corrente sindacale cristiana, ma ne sarà una degli interpreti. Proprio in questo clima incerto nasce, il 4 novembre 1948, il secondo quotidiano di matrice gronchiana, La Libertà, che si farà portavoce delle sue posizioni alla Camera, in polemica con la conduzione degasperiana del partito. Lo scontro con De Gasperi si acuisce, le idee gronchiane diventano sempre di più una corrente interna al partito, ma dopo il congresso svoltasi a Venezia nel giugno 1949, vediamo un Gronchi sconfitto (perde il consenso sindacale e le posizioni nel partito), ma è proprio questo lo stimolo che lo induce ad affrontare la più lunga e aspra polemica nei confronti del politico trentino. In sede di Consiglio nazionale gli imputa di «possedere una concezione dell’emergenza democratica paralizzante per l’azione governativa», e ancora: «un governo di coalizione, concepito come una compagnia di elementi piuttosto piccoli, dei quali e utile farne a meno, finisce col polverizzare i partiti minori e con l’eludere l’alternativa democratica». In rotta con i democristiani, si rivolge ai socialisti, dove trova concretizzato il mito del partito del lavoro, ma prima c’è bisogno di una rottura socialista nei confronti del Psli. Questa avverrà con la scissione capeggiata da Romita, che non porterà a nulla, tranne che alla crisi del quinto governo De Gasperi. Ora gli occhi delle democrazie occidentali sono puntati sull’Italia, in particolare sull’operato del presidente della Camera. Gronchi comunque non vuole arrivare a uno scontro frontale con De Gasperi, ma gli eventi gli sono favorevoli: da una parte i socialisti rompono l’alleanza con il Pci, dall’altra i democristiani subiscono un tracollo di quasi dieci punti alle elezioni amministrative dell’aprile 1948. Nella seduta congiunta di Camera e Senato del 12 luglio 1948 avviene la resa dei conti tra i due politici: il capo del governo riconosce la crisi della democrazia e apre le porte alla possibilità di nuovi alleati; il presidente della Camera propone le dimissioni del leader democristiano, asserendo che è giunto il momento di un cambiamento radicale. Il primo febbraio 1952, il settimo governo De Gasperi è costretto a chiedere la fiducia riguardo alla «difficile situazione di bilancio»; Gronchi decide di non votare, l’emendamento non raggiunge la fiducia, e il presidente della Camera presenta le dimissioni, queste, però, vengono respinte dall’assemblea. Ma ormai il clima tra i due politici è teso. Con la pubblicazione, nel 1952, del saggio Torniamo alle origini, Gronchi teorizza la sua idea di ritornare agli ideali della prima Dc nata dalla «parte più attiva dei cattolici e la più sensibile ai problemi politici e sociali». Ma egli si pone come un solitario predicatore, una voce contrastante all’interno del partito, ma senza la forza per poter portare avanti le sue idee. De Gasperi, subito, contrasta il mito gronchiano del ritorno alle origini, descrivendo la nuova Dc come un partito con ideali passati, ma con lo sguardo volto verso il futuro; vi è «la necessità di avvalersi, per i cristiani impegnati in politica, di un bagaglio interpretativo nuovo, di categorie flessibili per cogliere i segni del mutamento prima degli altri». Gli umori si scaldano, tra De Gasperi e Gronchi si avvia uno scambio dialettico, l’uno sempre pronto e demolire le convinzioni dell’altro, ma il secondo non esita, una volta caduto il settimo governo De Gasperi, a porsi agli occhi dell’opinione pubblica italiana come possibile presidente del Consiglio ma non come successore e prosecutore della politica del primo (il governo andrà poi a Giuseppe Pella). È ora che la polemica gronchiana si inasprisce, egli impronta la sua azione verso una sistematica rottura dello status quo, consigliando un’apertura del partito verso sinistra, rendendosi conto del mutamento storico che stava avvenendo nell’Italia di quel periodo; egli vede nello stato la chiave per risollevare l’industria italiana in piena Rivoluzione industriale, ponendosi in contrasto con il Comunismo, nuovo spauracchio da tenere alla larga; denuncia il connubio tra democristiani e potentato (specie al Sud), apprezzando, in questo caso, l’operato del Pci nel portare «una parola di liberazione per quelle masse lavoratrici». Ma è la morte di De Gasperi a spianare la strada del Gronchi verso il Colle: verrà eletto presidente della Repubblica il 29 aprile 1955, il politico di Pontedera aveva così raggiunto il culmine della sua carriera politica.

 

Un abile uomo politico

Gronchi fu un camaleonte della politica italiana: appoggiò il governo fascista, riuscì ad evitare le persecuzione di regime ritirandosi a “vita privata”, si pose a favore dei lavoratori, ma parlò con la borghesia, si inimicò gli USA, fu acclamato come eroe della Resistenza, ma egli effettivamente non partecipò mai attivamente alla lotta, limitandosi a prendere parte alle riunioni dei salotti romani. Dal punto di vista politico la sua ascesa al Colle viene indicata come «un mistero della Democrazia». Non fu né «l’uomo di domani», come lo definiscono alcuni, né «l’uomo della Provvidenza», come dicono altri; fu solo un abile uomo politico che, con l’aiuto di favorevoli eventi del destino, riuscì a ricoprire la più alta carica dello stato nella nascente Repubblica italiana.

 

Antonietta Zaccaro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 41, gennaio 2011)

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